Io poi li ho visti gli occhi di tutti verso quella montagna da scalare che solo a vederla dallo schermo del televisore fa paura. Perché noi abbiamo gli occhi abituati al mare, quella pianura azzurra che di tanto in tanto si agita. Mentre il Col de la Croix de Fer è un’onda immensa, alta 2067 metri e il Col du Galibier è un macigno di 2642 metri. Che sono numeri quasi impossibili per chi, come me, è abituato all’orizzonte del mare. Le montagne dunque, quelle vere, quelle che raccontano storie e leggende di un Tour ultra centenario e dove ci son passati tra gli altri: Coppi, Bartali, Anquietil, Lemond, Bugno, Pantani, Indurain; dove ha cavalcato la leggenda, oggi ci pedala Fabio Aru.
Io poi li ho visti gli occhi di Froome, Aru, Bardet, Uran, Landa, Yates, Martin, Meintjes, Caruso e Quintana: i primi dieci di questo tour partiti stamattina con distacchi brevi, raccolti tra il ritardo di soli 18 secondi di Aru da Froome, ai 6 minuti e 16 secondi di Quintana. Li ho visti gli occhi di tutti tra le rampe e l’inverosimile. Dicono che la montagna bisogna conoscerla e accarezzarla. Come il mare. Ma non credo sia la stessa cosa. Dicono che te la devi giocare da solo, con le tue gambe, le tue braccia, pompando ossigeno al cervello. Ma anche gli occhi contano. E io li ho visti quegli occhi fermi, impassibili, socchiusi ma attenti. Ho visto gli occhi di tutti, di quei dieci cavalieri che si sono trovati in un recinto molto stretto, con distanze quasi inutili. Ho visto quegli occhi e ho guardato la montagna: bisogna aggredirla, mi son detto. Bisogna saperla aggredire. Perché la montagna è come il mare: devi conoscere quando partire, quando cavalcare le onde, le curve, quando accelerare, quando non devi voltarti indietro. Questa è la sfida, mi son detto. E lo leggevo negli occhi di tutti: e la sfida poteva cominciare. Questo deve aver pensato Contador, stamattina fuori dal grande giro. Questo deve aver pensato: di essere solo con la montagna. Di essere solo con il Dio dei ciclisti che ti osserva e ti aiuta. Solo se osì però. Ed era bello guardare le sue falcate sul Col de la Croix de Fer. Pareva il Contador di sempre con gli occhi di uno che voleva durare per sempre. Devi mettere molta aria nei polmoni e far circolare il sangue tra le vene. Devi essere più forte di quelle curve e di quelle salite. E non le devi contare mai. Non è il pallottoliere che devi usare ma la forza della volontà. Come se fosse facile. Non lo è, dentro queste montagne tra la Val d’Isère e la Savoia, vicinissime all’Italia. Le Alpi che noi italiani ricordiamo sempre con le Piramidi, perché c’è sempre qualcosa che ci unisce a noi e i francesi: e Napoleone è qualcosa che ricorda il ciclista: grimpeur come pochi, voglia di vincere, di arrivare primo. E da solo. Salire su queste Alpi è sentirsi soli davanti al nulla che è tutto: sei tu e il Dio dei ciclisti. Aru tutto questo lo sa, Aru tutte queste montagne le ha solo viste in televisione da piccolo. Poi ha cominciato a scoprire, a controllarle, a raccogliere il sudore e provarci. Piccolo grimpeur sardo. Quasi un ossimoro. Queste montagne le sono amiche. Si è allenato spesso da queste parti. Ma non basta conoscerle ed essere soli. Devi cercare il Dio dei ciclisti che a quanto pare si nasconde molto bene. Nel 1998 prese il Pirata e lo portò in alto, sul colle del Galibier, solo contro il mondo, solo con i suoi umori, solo come un grimpeur sa e vuole essere. Il Dio dei ciclisti non aiuta i più bravi ma soltanto quelli che vogliono farcela, che sanno osare. Magari, poi, non vincono nulla, ma ci hanno provato. E il Dio dei ciclisti sorride. Questo si narra in questo 19 luglio, tra i tornanti e le speranze di chi, comunque, vuole giocarsela. I primi dieci aspettano che arrivi l’ultima salita. Come un film di Sergio Leone, come un duello all’ultimo sangue. Occhi che si guardano, dita vicino al manubrio, strada che non vedi, ma immagini, un po’ di forza e un po’ di sana follia in tasca e parti. Così, trattenendo il respiro, provando a disegnare pianure assolate dove, invece, ci sono salite immense. Non è facile pedalare da queste parti. Non è mai facile pedalare e disegnare la strada migliore. Però bisogna farlo. La prima maglia cambia: quella verde non è più sulle spalle di Kittel che cade e si ritira, ma su quelle di Matthews, due tappe vinte, compresa quella di ieri. Ma oggi è, davvero un altro giorno. Ai piedi del Galibier Quintana saluta, si stacca dal gruppo della maglia gialla. Forse manca la voglia, la forza, manca qualcosa e a guardarlo davanti a questa salita fa quasi tenerezza. Ai piedi del Galibier Contador continua ad essere davanti, oltre tre minuti in tasca. Non bastano per il Tour, certo, ma potrebbero bastare per la tappa. Ai piedi del Galibier Fabio Aru ci arriva senza squadra. Da solo. Come sempre in questi giorni. Bisogna capire quanta volontà c’è nelle tasche e quanta gliene lascia Froome con la sua corazzata Sky. A cinque Km dalla cima del Galibier Froome rimane solo con Landa. La grande corazzata comincia a scricchiolare e il Dio dei ciclisti osserva. Martin è scattato per restituire lo schiaffo subito ieri nella tappa dei ventagli dove lui, Martin, ha perso quasi un minuto. Si sale e si sale davvero. Fabio Aru è dietro le ruote di Froome. Ma proprio dietro. In attesa. Davanti, a pochi metri, Daniel Martin che non è riuscito a sentire il dio dei ciclisti. Difficile giocarsela. Difficilissimo. Si guardano, si scrutano, respirano intensamente Froome, Bardet, Uran, Aru. Ed ecco che Bardet parte. Segue subito Froome e Aru sembra aver perso l’attimo. Aru ha perso almeno cinquanta metri. Che sono un’eternità ma nelle tasche c’è ancora la voglia. Ma Bardet riparte. Ha capito che Fabio Aru è in difficoltà. Due accelerazioni che non aiutano Fabio. Le conosce queste montagne Aru. Le conosce ma non trova il Dio dei ciclisti. E’ nascosto, fuggito. Perdere contatto significa perderla questa occasione. Io poi li ho visti gli occhi di Aru che appena rientrato ha dovuto ancora mollare. Sembra quasi ci sia il Dio degli strappi a comandare questa tappa. Li ho visti quegli occhi a macinare il vuoto e la salita. Li ho visti e per la terza volta risale. Come quasi una via crucis personale, cadere e rialzarsi, due volte nella polvere, due volte nell’altare. Perché poi c’è sempre l’epica a disegnare le imprese ed oggi restare attaccato ai primi non è semplice. Mica è facile giocarsi il Tour. Non è facile salire tra le Alpi con gli occhi di chi ha sempre osservato il mare. Non è facile farlo dalla piccola Sardegna dove le Alpi sono solo disegni e immaginazione. Eppure Fabio continua, tenace, testardo, orgoglioso, solitario. Come un grimpeur. Il serpentone sta per essere raggiunto. La testa è vicina: mancano seicento metri al gran premio della montagna, manca una manciata di metri per tutti e tutti sono insieme. Oggi non è successo niente ed è successo tutto. Perché Bardet riparte, insieme a Froome. Riparte che sembra essere in discesa e allora la riguarda quella salita Fabio. La riguarda e decide che non può mollare. Non può essere inghiottito dalla testa del serpente. Non può essere divorato. Arriva al traguardo del Gran Premio della montagna con 20 secondi di ritardo. Non è giornata. Non era semplice. Le conosceva queste montagne Fabio. Le conosceva anche Bardet perché lui, in Francia c’è nato. Bardet, insieme ad Uran si giocano il podio. Aru si gioca un pezzo di storia. E’ rimasto impigliato nella testa del serpente, in quel luogo dove il buio si allarga e non ti fa pensare. E non bastano gli occhi e la voglia. Neppure la forza. Ci finisci dentro e non riesci a ripartire. Non hai il tempo di guardarla quella montagna, non riesci a guardarla perché questa è la strada del tour: non ci si guarda mai indietro. Fabio è più lontano dalla vittoria finale, ma è sempre dentro il tour. Non è detto che il buio compaia tutti i giorni. Non è detto che tutto è perduto. Non è detto che non si possa ritornare ai piedi delle Alpi: quelle di domani dove la testa del serpente si chiama Izoard ed è a 2360 metri. Io poi li ho visti gli occhi di tutti e ho guardato la strada. Ho visto con la coda dell’occhio anche il Dio dei ciclisti, quello che sta sempre dalla parte di chi osa. Oggi è quarto, a 53 secondi dal primo. Nulla. Domani è un altro giorno e Fabio Aru ci sarà.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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