Aru ha vinto su tutti, tranne che con la sorte. Il Dio dei ciclisti arriverà un giorno anche per Aru e lui saprà riconoscerlo. Fabio Aru ha vinto. Perché, a certe condizioni si vince anche se non si arriva primi e Fabio ci ha restituito l’amore per uno sport che dai tempi del primo Pantani mancava. Salutiamo Fabio e il suo caschetto con i quattro mori. Salutiamo questo Cavaliere che ha fatto comunque l’impresa.
E così il Dio dei ciclisti all’Izoard non si è presentato. Non ha aiutato chi aveva gambe dure, chi era solo e senza squadra chi, probabilmente, lo meritava. Fabio Aru ha combattuto da solo con quel serpentone di curve e di salite, ha macinato lacrime e secondi senza una vera squadra che lo assecondasse. Succede. E’ come vedere Messi giocare nel deserto, Maradona in una squadra di provincia, Totti che non sa a chi passare la palla. Il ciclismo della corsa a tappe è un gran bel gioco di squadra. Froome la squadra ce l’aveva. Aru no. Nessun rimpianto, perché comunque essere ad un passo dall’impresa non era facile. Provarci e vincere una tappa al Tour con questi avversari è come vincere un partita al Bernabeu con il Real Madrid, giocando peraltro in otto contro undici. Molti giornali oggi titolano che Aru non ce l’ha fatta, che è svanito il sogno giallo. Aru, invece, ce l’ha fatta eccome. E’ riuscito, praticamente con una squadra dimezzata, a giocarsela alla pari di squadroni come quello Sky capitanato da Froome. Aru ha vinto per la tenacia, per la costanza, per la voglia di continuare ad esserci, per la certezza che ci sarà e con la consapevolezza di essere un grande campione. Ma anche il più grande dei campioni ha necessità di comprimari, di compagni che riescano ad aiutarlo quando serve, che lo sappiano guidare tra le curve ed i traguardi, tra le insidie che un giro d’Italia, una Vuelta o un Tour nascondono sempre. Aru ha vinto perché ha vestito la maglia gialla, perché ha vinto, da campione vero, una tappa in salita, perché ha le doti e la forza del grimpeur, dello scalatore. Aru ha vinto perché aveva quella terribile smorfia da sardo in gita, con il caschetto e i quattro mori, con la maglia di campione d’Italia. Aru ha vinto perché ha saputo rappresentare la forza e la volontà, la bellezza di saper accettare la sfida e ha vissuto la dolcissima solitudine di chi, comunque, sa di aver centrato un obiettivo importante. Aru ha vinto su tutti, tranne che con la sorte. Il Dio dei ciclisti arriverà un giorno anche per Aru e lui saprà riconoscerlo. Fabio Aru ha vinto. Perché, a certe condizioni si vince anche se non si arriva primi e Fabio ci ha restituito l’amore per uno sport che dai tempi del primo Pantani mancava. Salutiamo Fabio e il suo caschetto con i quattro mori. Salutiamo questo Cavaliere che ha fatto comunque l’impresa.
La tappa di oggi era solo un gioco, una piccola passerella prima del gran finale. Guardateli i ciclisti quando passano e applaudite. Tutti hanno gambe e sogni tra i pedali, hanno strade da raccontare.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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