Pomeriggio di ottobre, cielo terso, temperatura gradevole. Il campo appare in buone condizioni, l’erba non è stata rasata, anche perché non ce n’è, e i ragazzi, bianchi e neri (non capisco perché li definiamo neri se son marrone, cit. Luca), corrono attorno al campo per il riscaldamento.
I fatti di Li Lioni sono ormai solo sulle pagine della Nuova e su qualche giornale on line. Si perché inizialmente si è temuto che quella protesta, inscenata sulla ex 131 da un gruppo di ospiti di quel centro di accoglienza, avrebbe potuto degenerare e far precipitare i rapporti, a volte tesi, tra locali, che non vogliono saperne di accogliere migranti, e quei disperati. “Collocare” questi disperati in strutture dove non si tiene conto delle etnie, delle religioni, delle lingue, delle abitudini, e di tante altre cose è un grave errore che a lungo andare può generare tensioni. Convivere per otto mesi in quelle condizioni non è semplice. Per noi sono tutti africani, tutti uguali, tutti neri. Ma non è così! Ci sono somali, eritrei, nigeriani, ghanesi, ivoriani ecc. Tutti diversi per etnia, lingua, religione, abitudini e tradizioni. Tutti impazienti di ottenere uno status e dei documenti che permettano loro di andare a ricongiungersi con i connazionali, con i parenti oltralpe, a realizzare le loro aspirazioni, a costruirsi un presente e un futuro che ormai nella loro terra è diventato impossibile. La protesta, sostanzialmente pacifica, si è risolta nell’arco di poche ore, sia pure con qualche piccolo strascico giudiziario per una decina tra nigeriani, somali ed eritrei.
Questi fatti, per fortuna, non paiono aver turbato quei ragazzi che ormai giornalmente si “scontrano” in una partita il cui risultato va ben oltre i gol segnati o una vittoria o un pareggio dove si esulta, si batte cinque e ci si abbraccia. Il risultato è di quelli che fanno crescere, che fanno diventare uomini, che rendono veramente liberi da pregiudizi, discriminazioni e paure. L’arbitro improvvisato, Abdul, fischia l’inizio (niente fischietto però, solo abilità di bocca, che si acquisisce per strada, con molto esercizio…). Le squadre si confrontano a viso aperto, la partita è “maschia”, ma non violenta. Si segna il primo gol e si esulta. Si abbracciano quei ragazzi e si rotolano nella terra battuta, che anche a scrollarla, quella polvere, mista a sudore, resta attaccata a quella pelle color caffè di ragazzi che hanno percorso miglia e miglia per terra e per mare fino ad essere scaricati nella nostra di terra. E poi si segnano altri gol e il rito si ripete, bianchi e neri insieme, senza di distinzione di colore di pelle e di casacca…
Tutti vogliono giocare, anche le schiappe, ché il gusto non è tanto vincere, ma partecipare, ridere e divertirsi. C’è Gavino, a bordo campo, che sbraita, sbraccia, grida, vuol giocare in quella squadra composta da ragazzi del satellite e ragazzi del “centro”, che non è il centro della città, ma il centro d’accoglienza… Ma mentre i neri si organizzano i cambi senza problemi, Giuseppe, Francesco, e Luca non ne vogliono sapere di uscire per far entrare Gavino. Abdul ferma il gioco e ordina il cambio. – Perché proprio io? – si lamenta Luca. Ed ecco che Ibrahim si avvicina e fa cenno a Gavino di entrare al suo posto.. Grande gesto e grande lezione di solidarietà. Battono cinque e il gioco prosegue. Giocano scalzi alcuni di quei ragazzi, ma come si vede dalla foto, ad ogni calcio di punizione si proteggono il pube: per i piedi non c’è problema, ma alle palle ci tengono, pure loro…
Foto di Angelo Dedola
Nata quasi a metà del secolo scorso, ha dato un notevole impulso, giovanissima, all'incremento demografico, sfornando tre figli in due anni e mezzo. La maturità la raggiunge a trentasei anni (maturità scientifica, col massimo dei voti) e la laurea...dopo i sessanta e pure con la lode. Nonna duepuntozero di quattro nipotini che adora, ricambiata, coi quali non disdegna di giocare a...pallone, la sua grande passione, insieme al mare.
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