L’Asinara sarà sempre per me uno struggente Amarcord da quella volta che, nel lontano 2001, ebbi la possibilità di andare al di là del mare e posarci il piede. L’isola di nessuno. L’isola delle meraviglie. L’isola indomita e inospitale, luogo di pena e di dolore. L’isola-utopia delle nostre fantasie turistiche che dovevano riscattarci dagli anni cupi e puzzolenti di SIR e oltre. Così mi preparai al meglio per farci la guida. In una stagione emotivamente ricca (era la seconda stagione aperta ai turisti), cercai di trasmettere alle persone che incontrai, il senso tragico di una terra a cui era stata inflitta una storia artificiale, fatta di malattia e prigionia prima, e di prigionia e di nient’altro poi. L’utenza allora era piuttosto variegata. La parte più popolare era stata trascinata lì soprattutto dalla curiosità verso 41bis e il rischio, per noi, era di assecondare troppo quella curiosità un po’ morbosa. Tuttavia, riuscivamo, marcando stretti i gruppi, a comunicare profondamente con loro e a distrarli dai continui disservizi e dalla mancanza di tutto (gabinetti compresi). Tornavamo ogni sera cotte dal sole e dalla fatica ma accompagnate dallo sguardo di quei turisti a cui era entrata la Bellezza nell’anima e ne aveva disteso i tratti del viso in un’estasi profonda.
E così anche questa volta mi preparo allo struggimento. Partenza ore 8.15 da Porto Torres. Biglietti a bordo: io e mio figlio – residenti – paghiamo 15 euro (nessuna tassa di sbarco), mentre per la mia amica sassarese con la figlia l’attraversata costa 40 euro (5 euro a persona di tassa di sbarco, nessuna riduzione per le famiglie). L’attraversata è gradevole e sbarchiamo alle 9.15. Tuttavia il primo pulmino per Cala d’Oliva è alle 10.30. L’autista di quello diretto a Fornelli si offre di farci i biglietti. Pensiamo sia una sorta di prenotazione e invece scopriremo poi che è soltanto un modo per agevolare il collega nella lunga trafila della compilazione a mano (un paio di minuti, se tutto va bene, a passeggero). Il costo è di 7 euro per noi residenti e 10 euro per la mia amica e sua figlia (ancora una volta nessuna riduzione per le famiglie). Purtroppo il bus delle 10.30 è letteralmente preso d’assalto. E’ un piccolo pulmino da trenta posti e gli aspiranti passeggeri più del doppio. Prevedibile restare a terra se non sei una che si azzuffa abbastanza. Il prossimo è alle 10.50. E io che pensavo che l’acquisto del biglietto fosse un vantaggio! Nei venti minuti di ulteriore attesa, noi poveracci rimasti a terra, ci chiediamo, inevitabilmente, come mai non siano potenziati i mezzi all’arrivo del traghetto, quando è prevedibile che ci siano più richieste.
Intanto è in arrivo il secondo pulmino, sempre ugualmente troppo piccolo.
Un nuovo assalto alla diligenza. Io e mio figlio riusciamo a salire. La mia amica e sua figlia restano indietro travolte dai più prepotenti. Mi permetto di far notare all’autista che potrebbe dare la precedenza a chi il biglietto lo ha già acquistato e, magari, è rimasto a terra nella precedente corsa, ma… niente, mi dice che non si può. Sto per scendere (la mia amica e sua figlia sono rimaste a terra) quando una signora napoletana si infuria, inizia a sbraitare, pretende che salga la sua famiglia, chiede esasperata di far rispettare la fila, insomma, la scena è quella dello scoppio d’ira con l’autista che minaccia di far scendere “quelli” in piedi, e di partire con i solo trenta passeggeri seduti (e gli altri paganti?). Sotto tale minaccia – l’altra corsa è alle 12.00 – la gente si acquieta, più o meno, e si parte, finalmente si parte, tra le lamentele esasperate dei turisti trattati un po’ come ospiti indesiderati e inopportuni (intanto, chissà per quale miracolo, nella confusione, la mia amica e sua figlia sono riuscite a salire).
Nel pulmino l’aria è tesa. La gente è adirata. Mi chiedo se in un altro luogo si sarebbe trovato il sistema per gestire tutta la complessità che l’Asinara offre agli umani che intendano domarla, sottometterla, piegarla ai ritmi della civiltà e del turismo di massa. Mi sento rifiorire la rabbia appena assopita perché, al netto della totale comprensione in termini di costi di gestione, di penuria di risorse, dell’imprevedibilità dell’affluenza, mi rendo conto che non ho visto (ero distratta?) un segno del mio Comune. Per quanto mi sforzi, non ricordo alcun simbolo, alcuna traccia sia del Comune di Porto Torres sia del Parco. Sicuramente ci sono, come no. Ma devono essere timidi cenni, discreti e timorosi, perché sono parecchio difficili da scovare. L’unico che ricordo è quello stampato sulla maglietta della ragazza, gentilissima, dell’info-point a bordo del Sara D. L’unico.
Quindi, nessun messaggio con l’altoparlante prima di sbarcare circa le regole del parco, le raccomandazioni tipo“non strappare le piante”, “molla l’euforbia sennò te ne escono gli occhi”, “portati via la spazzatura che sei in un parco” e, soprattutto, “non fumare se non nelle aree in cui è permesso”. Nessuna brochure. Nessuna consapevolezza di essere i padroni di casa. I padroni di una bella casa, un po’ scomoda per certi versi, indomita e selvaggia, ma pur sempre casa tua.
Intanto si arriva. Siccome sono una chiacchierona, dietro di me c’è un codazzo di persone che mi hanno sentito parlare con la mia amica e mi chiedono se possono ascoltare. Tra di loro, la signora napoletana più infuriata che mai. Insieme ci arrampichiamo lungo il salitone che sfiora la casa del Direttore, prosegue verso la foresteria e si arrampica fino alla Diramazione Centrale. Arrivati all’imboccatura dello sterrato, lasciamo la strada cementata e procediamo verso la wilderness locale e, dopo un bel po’ di strada, finalmente, dallo sterrato, appaiono sotto di noi Cala Sabina e Cala dei Ponzesi. La signora adirata trattiene il fiato e non parla per un po’. Non si muove. Non ci muoviamo. Il fazzoletto di mare sotto di noi è un concentrato di tutte le sfumature di turchese. Nonostante la vastità e la complessità di questa isola benedetta dal vento e maledetta dell’uomo, mi rendo conto che basta una goccia di azzurro a calmare gli animi e sentire di non essere stati imbrogliati. Quindi, infine, Cala Sabina. Per inerzia, proprio come allora, raggiungo il piccolo molo “delle Guide”, che mi ricorda l’attenzione che prestavamo ai bagnanti. Non ne perdevamo di vista uno. Anche la forestale era molto presente e attenta. Arrivavano con la loro camionetta e la loro immancabile battuta: “morti ce n’è? tracine, zecche, affogati?”. Spiritosi. Ma presenti, a dare spesso passaggi al rientro, nei due chilometri di sterrato che ci dividevano da Cala d’Oliva, ad anziani e bambini.
Lo so, sa di sdolcinato Amarcord, ma è tutto vero.
Invece, dal Molo delle Guide (non digitatelo su Maps, tanto in realtà non esiste), guardo l’umanità che ho attorno e mi accorgo che è sola, completamente sola: nessuna assistenza in caso di malore o difficoltà, nessun controllo e nessuno che ricordi loro che sono in un’area protetta. E allora, inevitabilmente, arrivano questi che, con grande candore, massacrano lo scoglietto di posidonia per piantarci l’ombrellone. Orrore. Stavolta l’embolo parte a me. E mi domando come sia possibile che dopo quasi vent’anni, un patrimonio gigantesco come l’Asinara, non riesca a diventare il personaggio principale del film delle nostre velleità turistiche? Ma perché mai il Comune non si percepisce, come mai non ha marchiato a fuoco il territorio come un orgoglioso gatto in amore? Come mai in tutto questo tempo non è andato ad imparare da altre esperienze come si integrano tutela e turismo, tutela e conoscenza, tutela e formazione? Assente. Anche l’Ente Parco latitante nei simboli e nella presenza tangibile, visibile, reale e, soprattutto, costante. Le Guide della Cooperativa Sinuaria sono molto gentili e preparate ma presenti solo per coloro che hanno scelto il pacchetto con la guida. E gli altri? Gli altri che hanno pagato 5 euro solo per sbarcare? Gli altri che non sono passati per l’Ufficio Turistico, che non hanno letto le regole del parco? Gli altri che non sapevano nulla del bellissimo allestimento della Mostra della Memoria Carceraria? Gli altri a piedi, senza fuoristrada, senza il trenino Thomas?
A partire dal bar della Reale sistemato in una sorta di sottoscala, piccolo e inospitale, dalle paste che traghettano col Sara D. da Porto Torres per la colazione (ma un fornetto con un paio di croissant surgelati sono uno sforzo impensabile in un Parco?), e poi le biciclette a noleggio che spariscono in un amen, l’ostello a cui bisogna telefonare per farsi dire le tariffe e che non pratica alcuno sconto famiglie, la desolazione di Fornelli, le macchine che sfrecciano sullo sterrato per Cala Sabina senza curarsi dei poveracci che passano a piedi, insomma, ci sarebbe un trattato del nulla da scrivere. Lo so che è molto complicato e che è più facile criticare che fare. Ma è l’immobilità che mi sorprende. Tutto sembra ancora provvisorio. Tutto ancora da fare e sono passati diciotto anni. I visi che incontri invecchiano ma mantengono nei loro sguardi la promessa, o la menzogna, che il meglio deve ancora venire.
Il viaggio di ritorno è struggente come ogni addio vero o presunto. L’aria è fresca, il Sara D. stracolmo. La gente ha riposto le armi nelle fondine e indossato espressioni estasiate. Perché la bellezza è in fondo una terapia del profondo, è quella forza che ti entra nel cuore e distende i tratti del viso. E una volta sbarcati, ancora con l’eco del silenzio del cisto, l’argento dei saraghi che ti nuotano accanto e il turchese di un mare che toglie il respiro, siamo talmente appagati che possiamo dimenticare ogni torto subito. Come la signora napoletana che si avvicina e mi dice raggiante: “un mare così non lo avevo mai visto”, senza aggiungere altro, dimenticando tutto il resto.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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