Il 27 dicembre del 1947 Enrico De Nicola promulgò la Costituzione. Ci ho pensato nei giorni scorsi quando i risultati delle elezioni catalane hanno – tra l’altro immotivatamente – suscitato entusiasmo e speranze nell’area indipendentista. Io sfogliando i libri di storia e leggendo i giornali ho imparato soltanto a non sottovalutare niente e nessuno. Tutto può accadere. E’ stata sdoganata anche sul piano scientifico la storia controfattuale, cioè quella che tenta di rispondere alla domanda “che cosa sarebbe accaduto se…”. Se Napoleone avesse vinto a Waterloo, se Giulio Cesare fosse sopravvissuto alla congiura, se la Guerra di Secessione l’avessero vinta gli Stati del Sud eccetera. Il principio è che molti eventi sono determinati da circostanze assolutamente casuali e non da un inarrestabile confluire di condizioni oggettive verso un’unica possibile soluzione. Il che fa pensare che in realtà la controfattualità non sia quella escogitata da chi ipotizza un’Europa (e persino un’America) dopo una vittoria di Napoleone a Waterloo e una conclusione trionfale del suo cammino di conquistatore e riformatore, ma che la vera controfattualità sia quella che stiamo vivendo, originata spesso da fatti tanto probabili quanto può esserlo che io vinca un milione di euro al gratta e vinci, considerando anche la circostanza fortemente negativa che io non gioco. L’esempio più comune in questi giorni di ritorno in patria (la nostra, non la sua) dei resti di Vittorio Emanuele III è la Marcia su Roma. Ormai quasi tutti gli storici concordano sul fatto che se inusitatamente il re non si fosse opposto allo stato di assedio su cui Facta chiedeva la firma al capo dello Stato per fermare i fascisti, Mussolini non avrebbe mai preso il potere nei modi e con le conseguenze che sappiamo. Ecco perché non sfotto gli indipendentisti, né quelli sardi né quelli padani o di altre parti. Ne ho paura, più che altro. Perché penso che davvero tutto o molto può accadere. E per tornare alla Costituzione, ho la convinzione che esista da decenni la strisciante volontà di aggirarne l’articolo 5, quello che stabilisce che “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. E’ un principio che esclude qualsiasi ipotesi di scissione e che insieme, superando la concezione fortemente centralista dello Stato fascista, ammette e incoraggia le autonomie locali. Ma a preoccuparmi è l’uso che di queste autonomie si è fatto. Io non credo a un’Italia federalista, non di Stati, naturalmente, ma neppure di poteri confederati. Sarà una bestemmia, ma ho dubbi persino sull’opportunità delle Regioni, un ente che a mio modestissimo avviso ha avuto dagli anni Sessanta conseguenze più negative che positive nella costruzione dell’Italia democratica. L’esaltazione delle autonomie locali si è spesso trasformata in un perverso localismo che ha alimentato certi poteri locali, classi dirigenti alle volte dall’intelligenza limitata, dalla visione del mondo e del futuro circoscritta al presente del villaggio e dalla morale discutibile. L’Italia è diventata a un certo punto la federazione rappezzata di tutti questi piccoli poteri, con equilibri squilibrati, insani, egoistici, basati sulla forza che di volta in volta ciascuno di essi poteva esercitare, con la funzione alta e autorevole dello Stato che diveniva sempre più debole. Io penso che mali come la corruzione, la mafia e il clientelismo, quelli che tengono l’Italia ai gradini più bassi della competizione mondale, derivino a questo federalismo strisciante di poteri locali esercitati nella maniera più negativa per tutti. Una specie di frontiera diffusa dove vince il più forte. Un piccolo paradigma dell’assenza nefasta di un potere alto e rassicurante è la Sardegna dove la Regione non svolge più la sua funzione di equilibro tra le risorse dell’isola lasciando che il Sassarese e l’intero Nord Ovest declinino verso una rovina affrettata anche dall’atteggiamento ormai chiaramente predatorio del Sud. Una Regione che anziché ritenersi espressione politica dei più bulli del momento dovrebbe valutare che un simile squilibrio alla fine porterà alla rovina non soltanto i territori attualmente svantaggiati ma l’intera Sardegna.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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