Ihhh, quanto siete delicati! Per un paio di parolacce! E cosa credete che sia la Camera dei Deputati, la cappella sacra dei vergini dolenti? Altro che parolacce è volato tra quei banchi per difendere la democrazia. Lo sapete, a esempio, di quella volta che Giancarlo Pajetta disse a Francesco Cossiga: “Usciamo che ti faccio un culo così”? E il bello è che Cossiga si affrettò verso l’uscita facendo segno a Pajetta di seguirlo. Come a scuola.Era il 1960. E oggi la Macchina del Tempo è un po’ imprecisa perché non era febbraio ma luglio. Il luglio della strage di Reggio Emilia sotto il governo Tambroni, quello che di fatto aveva detto alla polizia che poteva sparare contro gli operai che scendevano in piazza. E la tensione non era tra quattro incapaci che stanno soltanto pensando alle prossime elezioni e di governare fanno finta (e anche di fare opposizione come va fatta, a dire il vero, visto che lo slogan autolesionista di questo settore del parlamento è “si stava meglio quando comandavamo noi”); la tensione era tra due pezzi di Italia e di mondo, dove la pesante ingerenza del pezzo americano di quel mondo stava rischiando di compromettere la libertà che la Resistenza aveva assicurato in Italia anche ai fascisti che la volevano mettere in discussione. Cioè, insomma, la discussione non era propriamente sulla “difesa dei confini” dai disgraziati che cercano da noi una vita decente. Perché allora c’era una classe dirigente che se aveva bisogno di fottere il popolo con falsi problemi, quanto meno si spremeva un po’ di più le meningi.Insomma, quel luglio del 1960 a Sassari la notizia del quasi affarratoriu tra Cossiga e Pajetta divenne l’argomento dell’anno. Si racconta persino che alla Gabbia di Sechi si fosse svolta una rappresentazione didascalica dell’evento. Si tramanda in una famiglia sassarese anche l’originale cartaceo di un vero e proprio copione scritto da un avvocato frequentatore del prestigioso caffè di piazza Azuni. Il leguleio era ricco di famiglia e la sua giornata era divisa, più che tra palazzo di giustizia e studio professionale, tra Gabbia di Sechi e foyer del teatro Verdi, dove conversava lunghe ore con il marchese Pappalardo, gestore del Politeama, seduti su apposite sedie portate fuori dagli uffici e fumando Mercedes.Insomma, poiché la sfida tra Pajetta e Cossiga in quei giorni veniva commentata alla Gabbia con evidenti imprecisioni, l’avvocato raccolse tutte le testimonianze scritte e orali disponibili dell’evento e, dopo una notte insonne, si presentò al Caffè con una cartella gonfia di fogli. Assegnò a se stesso la parte di Cossiga, a un suo segaligno collega dalle simpatie sinistrorse quella di Pajetta.Poi c’era un cameriere che dimostrava un’età per la quale avrebbe potuto avere cominciato da giovanotto la sua attività nei tempi in cui la Gabbia si chiamava Caffè Bossalino e vi si riunivano i repubblicani che nel 1848 avevano fatto un Quarantotto anche a Sassari, che allora era Regno Sardo Piemontese e attaccata al Caffè c’era la sede del governatore mandato da Torino. A questo revenant in giacchetta bianca venne assegnata la parte di Giovanni Leone, presidente della Camera.Non vi è prova che in aula fosse presente, durante quel fatto, il capo del Governo Fernando Tambroni. Tuttavia la parte venne affidata a tale “Cocò”, nel senso di Coco Chanel, un possidente mezzo rovinato dalla crisi del latifondo, chiamato così perché era avvicinabile soltanto il giorno del trimestre in cui prendeva il bagno presso i Bagni Popolari di via Arborea.I due protagonisti, i due comprimari e uno stuolo di comparse che impersonavano l’aula piena e schiamazzante alcune, i commessi signorilmente indaffarati a calmare gli animi altre, misero in scena un’affollatissima “prima” e numerose repliche serali e diurne del dramma storico, fedele ricostruzione, secondo l’autore, del fatto.Cossiga ha comunque negato che Pajetta gli avesse testualmente detto “usciamo che ti faccio un culo così”, come era scritto nel copione dell’avvocato, ma che il concetto era stato espresso più che altro a parole smozzicate e soprattutto a gesti che il deputato sassarese aveva peraltro compreso benissimo.Fu un successone. Tutti e tutto applauditissimi, compresa la regia curata dallo stesso autore del testo. Vi furono fischi soltanto per il cameriere, che non riuscì a impossessarsi del ruolo con il metodo Stanislavskij, cioè con un’identificazione tra il personaggio e l’interprete. Prevalse infatti la più che secolare (se è vero che aveva cominciato a lavorare in quel locale nel 1848) attitudine al rispetto dei clienti da parte dell’anziano dipendente, che non seppe rendere l’energico intervento con il quale Leone aveva scongiurato la scazzottata.Infatti il copione recitava LEONE (Scampanellando): Onorevoli, vi invito al rispetto della vostra funzione. E lei, onorevole Cossiga, le ordino di non uscire dall’aula, le ordino di non accettare la provocazione dell’onorevole Pajetta.Ma il vecchio cameriere non se la sentì di mostrarsi così aspramente autorevole verso i suoi due clienti e si limitò a mormorare confuso verso il comprimario che interpretava Tambroni, una sorta di convitato di pietra perché in scena doveva esserci e non esserci-Signò Cocò, digghiavilu vosthè all’avvucadi di no affarrassi, chi so’ tuttedui omini manni cu la cugliupa pirosa.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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