“La storia di un campo di prigionia è un coacervo di storie individuali non molto interessanti, storie di ognuno e di ogni giorno, esili fili d’acqua, un succedersi di atti e di pensieri difficili da ricostruire, anche se c’è chi tiene un giornale di bordo. E’ anche la storia di piccoli eventi «pubblici»: un’evasione, una disputa, una diceria. Anche in questo caso sarà difficile fare veramente luce sui fatti: tante teste tanti pareri, tanti testimoni tante versioni. Provate a immaginare le difficoltà per stabilire il giorno, l’ora, e il luogo, le precise responsabilità. Facilissimo, invece, ricostruirne la storia collettiva, le condizioni di vita materiali, i diversi periodi della vita morale del gruppo: periodi che si susseguono e, come tutti sappiamo, non si assomigliano. Per ottenere una ricostruzione perfetta basterebbero una dozzina di testimonianze, un serio sopralluogo, due o tre corrispondenze ben fatte, alcune statistiche affidabili. Al di là dell’evenemenziale, al di là dell’individuale, è la storia dei gruppi ad offrirci un solido terreno di ricerca. In questa direzione dobbiamo convogliare i nostri sforzi”.
Queste sono le parole di Fernand Braudel, il più grande storico che l’umanità abbia partorito nel XX secolo, faro della École des Annales, direttore della École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Le ha scritte e “parlate” ai suoi compagni di padiglione mentre era prigioniero nella Germania nazista, dal 1940 al 1945, durante un ciclo di conferenze che si era letteralmente inventato nell’Oflag XIIB di Magonza e a Lubecca. Non ne voleva sentire parlare di sottomissione del suo essere, Braudel, e così costruì quella che chiamava “Università del campo”, dedicando gran parte delle sue “conferenze” al Mediterraneo ai tempi di Filippo II e al metodo di indagine delle cose passate Poi, una volta libero, le pubblicò, quelle “conferenze”. E chi è curioso si può comprare “Storia, misura del mondo (Il Mulino)”, che riassume le geniali idee di quelle tragiche giornate.
Non ne voleva sentire parlare, Braudel, di annientamento. Non solo della carne ma del pensiero, dell’anima, di ciò ogni regime tirannico ambisce schiacciare. E non era il solo: Primo Levi, Bruno Bettelheim e tanti altri sono stati l’esempio vivente della forza di reazione al male e la speranza che l’uomo apprenda dai pozzi artesiani del male. Anche se si paga, quella reazione. Ché il peso del ricordo e la tragedia della sopravvivenza e della testimonianza sono insopportabili, a volte.
Così come appaiono tragicamente insopportabili alcuni falsi, vuoti e ipocriti rituali di appello alla “memoria”, una memoria stanca, strabica o presbite, laddove non ci si voglia interrogare a fondo sulla incapacità di quella tragedia nazista di essere e rimanere insegnamento e monito all’uomo di ciò che non dovrebbe più vedere luce su questo pianeta. Ché i campi di concentramento ancora esistono, proliferano, sono giustificati e legittimati da furori ideologici distinti quanto drammaticamente inutili e potentemente dannosi.
Ché poco più di 20 anni non sono tanti, dal reportage di Ed Vulliamy nel campo di concentramento di Omarska, in Bosnia durante il conflitto nella ex Yugoslavia (http://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Bosnia-la-memoria-dei-campi-di-concentramento-26602).
Ché gli stermini sono cosa seriamente recente, recentissima, se in poco più di 100 giorni, dal 6 aprile al 16 luglio 1994 si compie in Rwanda il genocidio dei tutsi e degli hutu moderati per mano degli ultrà dell’Hutu Power e dei membri dell’Akazu: 1.174.000 persone uccise, 10.000 morti al giorno, 400 ogni ora, 7 al minuto, migliaia di vedove stuprate e oggi sieropositive, 400.000 i bambini rimasti orfani. E Hitler, a quelle latitudini s chiamava Habyarimana e il suo clan Akazu, che tradotto in italiano ha un nome grazioso: la “casetta”.
Ché in Asia i nomi dei campi di sterminio sono più tristemente aderenti alle cose tragiche del quotidiano: Tuol Sleng” in lingua khmer significa “collina degli alberi velenosi” ed è uno dei tanti lager dove sono morti oltre 3 milioni di cambogiani durante la folle rincorsa al passato di Pol Pot. Folle, come tutte i furori ideologici.
Ché senza andar lontano dal popolo di cui oggi con sincera vicinanza si ricorda il dolore della Shoah, in Palestina questo stesso popolo sta compiendo da tempo una tragica ingiustizia ai danni di chi quella terra la abitava legittimamente e ora, ingiustamente, se la vede sottratta e si vede confinato in qualcosa, come a Gaza, che tutto è eccetto spazio libero.
La Storia non insegna niente all’uomo, purtroppo. Perché la memoria non ha la emme maiuscola ed è stanca, molto stanca. E se i rituali odierni hanno il loro giusto senso con lo sguardo rivolto al dolore del passato, poco o niente possono per il dolore odierno e l’attuale e contingente umana idiozia.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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