Mio nipote ha quattro anni. E’ bravissimo nel guardare i cartoni su you-tube. Lo fa in maniera eccelsa devo dire, lo fa perché ha imparato anche se non sa leggere. Perché è facile, basta utilizzare le dita, strofinare sul video del tablet e, sempre con il dito premere l’applicazione con la freccia bianca su sfondo rosso: you tube. Conosce benissimo anche il nome. Il suo mondo è youtube. I ragazzini non si creano molti problemi. Utilizzano il mezzo che gli permette di entrare nel mondo magico dei cartoni. Quando l’eroe cade dal baratro e fa il buco in mezzo alla roccia o quando dopo un incendio appare tutto bruciacchiato, mio nipote, sempre sorridente e attento mi dice: “è per scherzo”. Lui ha quattro anni ma sa che quello è il mondo virtuale, dove si muore o ci si sfracella per scherzo. Pensandoci bene miei figli utilizzavano più o meno lo stesso sistema, seppure a circuito chiuso: le mitiche casette VHS voluminose che infilavano nel videoregistratore e, pigiando sul telecomando entravano nel mondo delle favole. La loro preferita era Robin Hood. L’avranno vista centinaia di volte. Avevano sei anni e avevano capito che nel mondo virtuale le cose si ripetevano più o meno nello stesso modo. Se ritorniamo ancora indietro nel tempo vediamo dei ragazzi con un pallone, in un campo di periferia, senza erba e senza porte. Si danno delle regole e si mettono d’accordo: giochiamo senza fuori gioco e sino al tramonto. Tutti i giorni. Avevano 10 anni e il virtuale era rappresentato da Gigi Riva e Sandro Mazzola. Quei bambini eravamo noi. Immaginavamo di diventare grandi calciatori, di poter giocare a San Siro o al Maracanà. Sogni, speranze, giochi, tutto virtuale. Noi siamo uomini che, razionalmente, sappiamo riconoscere molto bene ciò che è vero da ciò che non è vero. Sappiamo benissimo come si misura il livello del dolore, riusciamo ancora a capire cosa è un bacio ricevuto e un bacio non dato però, a volte, cadiamo in tentazione e giochiamo con la stessa realtà. Vorremmo che le cose fossero diverse. Vorremmo cadere da un burrone e fare il buco in una pietra per poi rialzarci e continuare a camminare sorridendo; vorremmo avere come amici una volpe che parla e agisce come Robin Hood, vorremmo tutti essere l’uomo ragno, Superman, vorremmo segnare come Totti ed Higuain, andare in vacanza nei paesi misteriosi, essere tutti un po’ Lady Gaga e Fedez. Ed ecco che dalla preistoria nasce l’identità virtuale. Che, in fondo è sempre esistita. Pensateci un attimo: quella di Penelope che aspetta il suo Ulisse e ogni giorno tesse la tela non è una realtà virtuale? Quella di Dante che spera di finire i suoi giorni con Beatrice e prova a conquistarla inventandosi un mondo virtuale? Che realtà è quella di Galilei che scruta pianeti, quella di Leopardi che vede l’infinito da un colle, quella di Mameli che scrive una canzone che ancora va di moda, che realtà è quella di questo piccolo grande amore e di una maglietta fina, tanto fina da immaginare tutto? La realtà virtuale è sempre esistita. Nella letteratura, nella storia, nell’immaginazione della gente. I visionari come Steve Jobs e come Mark Zuckerberg hanno ricostruito quella realtà rubando le idee da ciò che c’era. Pensateci: lo smart phone è quell’oggetto che tutti sono in grado di utilizzare, anche se non si sa leggere. Con un semplice tocco del dito venite scaraventati dentro un mondo magico, più bello dei cartoni, più forte dell’inferno di Dante, più misterioso dei fumetti di Dylan Dog. Facebook altro non è che il diario che tutti avevamo a scuola. Io, per esempio, avevo sempre quello di Jacovitti, quello con i salami che sorridevano. Ci scrivevo di tutto in quel diario. Piccole cose, titoli di canzoni che mi piacevano, la squadra del cuore e non sopportavo che qualcuna, durante la ricreazione, ci disegnasse dei cuoricini trafitti da frecce. Roba di femmine, direbbe mio nipote di quattro anni, che mai cliccherebbe su un cuoricino che pulsa. Quel diario, quelle frasi nascoste, erano la nostra pagina Facebook e, di tanto in tanto, qualcuno andava a scrutare in quella pagina, ci metteva cuoricini o scriveva parolacce. I like, in fondo sono nati in questo modo. Facebook non ha inventato nulla. Nel diario, nel nostro diario, lo abbiamo detto, c’era gente che ci scriveva sopra proprio perché anche noi volevamo – forse inconsciamente – che qualcuno ci scrivesse sopra. Lo aspettavamo quel qualcuno, era una voglia innata di sapere cosa diavolo pensassero di noi. Volevamo scoprire la realtà osservando nel virtuale. Da queste esperienze nasce Facebook: da quella voglia di raccontare la propria vita quotidiana, da quel voler essere protagonista tra la gente che davvero ti conosce. Il tuo diario aperto a tutti. Le tue foto, i tuoi pensieri, i tuoi ricordi, i film che ami, le musiche, gli amori. Come quel vecchio diario di Jacovitti che portavamo a scuola. Facebook nasce proprio all’Università, con l’esigenza di scambiarsi informazioni, titoli di libri, riassunti. Cose che si facevano da sempre: in fondo, Facebook è un Bignami gigantesco dove non dovremmo esagerare nel prenderci sul serio. Però poi le cose sono andate in maniera diversa e il bellissimo e lucente coltello utilissimo per tagliare la torta, il pane e il salame è diventato uno strumento terribile, in grado di lacerare l’anima. Quel diario che pareva un gioco, dove si moriva, come dice mio nipote “ ma per scherzo” è diventato uno strumento a volte terribile, cattivo e cinico, un baratro da dove si cade sul masso ma da quel buco che il corpo produce non ci si rialza più perché le parole, i gesti, le visioni hanno un peso specifico molto pesante e non hanno la forma di Vil Coyote. Tutto si comprime, tutto si modifica, quel gioco diventa un mostro, quelle frasi cambiano rumore. Tutto diventa baratro. Perché così si comincia. Il coltello, bisogna conoscerlo e saperlo usare. Bisogna capire chi lo ha in mano e come lo userà. Facebook diventa una mostruosità. Ti prende e ti abbaglia. Era un gioco. Magari mettevi le foto di tuo figlio per il compleanno e non sapevi che quel mondo era abitato dagli orchi. Eppure lo dovevi capire, lo dovevi immaginare che nelle favole c’è sempre l’orco cattivo, c’è sempre quello che prova a regalarti qualcosa. Ma non basta. Rimani solo tra gli amici della tua classe e di qualcun altro. Rimani nella mattonella del tuo quartiere e non ti tendi conto che anche da quelle parti, tra gli amici, tra i tuoi pari, in mezzo ai cuoricini e ai like si nasconde qualcosa. Qualcosa di strano. Tutto ritorna e rimbalza come qualcosa di forte, fortissimo. Solo allora capisci di essere all’interno di un mondo difficile che di virtuale ci sono solo i colori e le parole vuote che leggi sul tuo diario. Il dolore, invece, comincia a tambureggiare dentro. Quel dentro che diventa grigio e non ha più orizzonti. Una volta c’erano i bulli. Li abbiamo conosciuti tutti. Ci siamo anche difesi dai bulli. Qualcuno ci canzonava per il cognome, o per gli occhiali che portavi fin da ragazzino. Poi cominciavano a sfotterti per come ti vestivi, per come guidavi il motorino. Per tua sorella che era grassa, per te che eri lungo e secco, per tua madre, per tuo fratello. Poi ti accerchiavano. I bulli, in fondo, sono sempre vigliacchi, hanno bisogno del branco o, sempre da vigliacchi, usano nomi falsi, fakes per attaccarti su Internet. Non hanno mai il coraggio di metterci la faccia. Una volta c’erano i bulli. Che minacciavano e mettevano paura. Ti obbligavano a consegnargli le figurine, poi l’album. Anche il pallone ti fregavano. Erano duri, forti. Te la giocavi, perché li conoscevi e a volte li scansavi. I bulli erano sempre sorridenti, sempre pronti a rispondere a tono. Non erano mai troppo bravi a scuola. Erano, diciamo, sgrammaticati. Poi sono finiti in internet. usano gli stessi meccanismi. Non sono cambiati: con la grammatica ci litigano spesso. Riescono a scrivere solo poche frasi e scombinate. Sono prevedibili e pericolosi. Internet è il coltello per la torta. Vi chiedo di utilizzarlo bene. I nostri figli passano molto tempo all’interno di quel mondo virtuale. Si sono creati un’identità che noi facciamo fatica a riconoscere. Non dimenticate di guardare il loro diario su face book o le foto su Instagram e state attenti che non ne creino uno con un’altra identità. Dite loro che questo è pericoloso. Siamo come nelle favole: i lupi sono suadenti e i bulli sono cattivi. Girano in branco e pestano. Insultano e costruiscono frasi contro i vostri figli.
Il bullismo c’è sempre stato, il cyber bullismo è la trasposizione di ciò che già conoscevamo con forma più ricercata di raffinatezza e, se vogliamo, con una dose superiore di vigliaccheria. Il cyberbullismo è un atto persecutorio previsto dall’articolo 612 bis del codice penale. Il punto nodale è duplice: da una parte dobbiamo monitorare le condotte dei cyberbulli e pretendere l’oscuramento o la rimozione dei contenuti on-line che ci feriscono. Dall’altra dovremmo lavorare sul fronte della prevenzione. Bisogna far percepire ai ragazzi il rispetto per la legalità, il rispetto della propria vita e quella degli altri. Con internet ci dobbiamo convivere. Come, nel tempo, abbiamo convissuto prima con le bighe, i calessi, i treni, le auto, le moto, gli aerei. Abbiamo modificato i nostri assetti sociali a seconda della tecnologia che ci invadeva e ci costringeva a stare al passo coi tempi. Pensavamo di non poter fare a meno dei gettoni telefonici e oggi sono solo vecchi ricordi di qualcuno oltre i quarant’anni. Pensavamo di non poter fare a meno di un disco e poi un cd. Oggi la musica è sulla nuvola, in streaming, su I Tunes. Non ci sono luoghi nascosti. Ci sono luoghi dove qualcuno nasconde qualcosa di orribile. Veniamo fotografati, registrati, watsappati in ogni momento. Per la maggior parte delle volte lo abbiamo voluto noi. Abbiamo la nostra pagina Facebook, il profilo Instagram, chattiamo perennemente. Difficilmente parliamo. C’è gente che, dopo averci notato, guardato, osservato, ci ruba l’identità. Si prende le nostre fotografie, i nostri video, gioca con photoshop e ci infila in video compromettenti, utilizzando, magari il nostro nome: insomma prende virtualmente il nostro posto. Può inviare messaggi, immagini o informazione carpite con diversi artifici, raggiri. Può minacciarci se ha un video che, magari, avevamo registrato per gioco. Non dobbiamo aver paura degli strumenti: dobbiamo stare attenti a come gli strumenti sono utilizzati. Oscar Wilde diceva che tutto ciò che è moderno viene, prima o poi superato. Ed è vero. Noi abbiamo superato la società dell’essere e quella dell’avere. Siamo in quella più falsamente poetica dell’esserci e dell’apparire. Dobbiamo solo stare attenti alle regole. Il bullismo e il cyber bullismo fanno parte della nostra vita. Dobbiamo imparare a non essere superficiali. La felicità non è comprare a rate tutto quello che si vede nelle vetrine. Scrive Zygmunt Bauman, il sociologo della post modernità: “L’attenzione verso il corpo si è trasformata in una preoccupazione assoluta e nel più ambito passatempo della nostra epoca”. Ecco, fate una cosa: provate a raccontare ai vostri figli che è meglio un bacio vero, appassionato, reale, ad una serie di messaggini e cuoricini inviati con watshapp. Sicuramente emoziona di più. Il cyberbullismo e internet ci obbligano a confrontarci con dei valori necessari entrambi: libertà e sicurezza. Questi valori sono, però, in conflitto fra loro. Qual è dunque il prezzo da pagare? Ce lo suggerisce ancora Bauman: “Il prezzo da pagare per una maggiore sicurezza è una minore libertà e il prezzo di una maggiore libertà è una minore sicurezza.” Dobbiamo provare e ricercare un equilibrio tra le due cose. I bulli hanno paura della realtà perché loro sono capaci solo di agire nella mistificazione. Diciamolo pure ai nostri figli che L’uomo ragno è un bellissimo fumetto, Tex Willer uccide solo per scherzo e la vita è molto preziosa per regalarla con troppa superficialità dentro una pagina di Facebook. Proviamo a parlarci con i nostri figli ed eliminiamo tutte quelle barriere infinitesimali che producono il non capire. A volte il rumore delle parole serve per distruggere il silenzio delle offese. E un abbraccio, come diceva una mia vecchia amica, colora la vita. Non abbiate paura di darlo.
Questo è l’intervento di Giampaolo Cassitta all’interno del seminario che si è svolto stamane a Nuoro. Il seminario, organizzato da impresa NUOVI SCENARI in collaborazione con Il Dipartimento Giustizia minorile e di comunità, IFOS – Master in Criminologia, USP Nuoro – MIUR, Inthum, Fondazione di Sardegna, Progetto Capacitazione aveva per titolo#IDENTITA’ VIRTUALE E NAVIGAZIONE ONLINE A RISCHIO. Nuove metodologie per educare i giovani alla cittadinanza digitale“. Al seminario hanno partecipato Gesuina Cherchi, Alberto Merler, Giampaolo Cassitta , Parry Aftan e Allan McCullough.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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