Sono tendenzialmente contrario ai boicottaggi economici: anche la persona peggiore ha il diritto di mangiare e vivere dignitosamente, figuriamoci il figlio della persona peggiore del mondo, che non ha colpa di essere figlio della persona peggiore del mondo e non deve patire per le colpe del padre.
Però, ieri, un post della collega giornalista Francesca Zoccheddu mi ha costretto a riflettere. Eccolo: “Sciopero degli acquisti: se solo ti manifesti sui social o nella vita reale per il razzista che sei, soldi miei non ne vedi. D’altronde, cosa te ne fai di una cliente zecca, buonista e pure comunista convinta?”.
Siamo circondati da razzisti. Da persone cui è inutile spiegare che in Africa il settanta per cento della gente vive con un dollaro al giorno, perlopiù in città prive di servizi, in mezzo a conflitti tra 54 stati diversi. Non serve, nemmeno serve andare sulle loro bacheche Facebook per far notare che la Germania, dal 2015 ad oggi, ha accolto un milione di profughi siriani. Non serve ricordare che tra il 1861 e il 1985 sono emigrati 29 milioni di italiani, 18 milioni dei quali non sono mai tornati, è inutile ricordare che la sola Svizzera nel decennio 1951-1960 ha aperto le frontiere a un milione e 240 mila italiani. Non fatelo, è tempo perso.
Non serve indignarsi per la vomitevole – questa sì – demonizzazione del volontariato che salva vite umane, è tempo perso. Però qualcosa bisogna fare, altrimenti si rischia davvero di perdere i valori più alti della civiltà.
Io credo che la scelta di Francesca non vada chiamata boicottaggio. Preferisco considerarla una scelta di coscienza, nel diritto di poter esercitare il nostro diritto di consumatori. Il mercato ci dà facoltà di scegliere. E io preferisco non andare da un commerciante che diffonde messaggi razzisti e istiga all’odio: se la sua opportunità lui l’ha avuta e se l’è guadagnata meritatamente, non vedo perché debba precludere quella stessa possibilità agli altri. Devo avere fiducia in chi mi vende qualcosa e quella fiducia va oltre la qualità della merce che mi propone: è qualcosa di empatico, strettamente legato alla capacità di mettersi nei panni degli altri. Di fronte ad atteggiamenti sfacciatamente razzisti, io cambio bottega. Certo, quando andiamo in certe grandi catene commerciali non sappiamo neppure da chi stiamo comprando, ma avremo sempre qualcuno che rappresenta fisicamente la proprietà. Nei miei criteri di scelta, da consumatore, aggiungerò anche la voce razzismo. Chi lo è, da me non avrà nemmeno quei pochi soldi che posso spendere per la sopravvivenza. È una forma di repressione delle idee, dirà qualcuno. E da quando in qua il razzismo è un’idea? E se qualcuno mi accusasse di voler difendere la causa degli immigrati a scapito di alcuni italiani, risponderei che sì, è esattamente così.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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