La Spagna sale nella macchina del tempo e, con l’approvazione del disegno di legge contro l’aborto, si catapulta indietro di almeno trent’anni. Trecentosessanta mesi di lotte femminili, conquiste, obiettivi raggiunti con fatica vengono buttati nel cesso, in un sol colpo.
Come può una nazione credere che rendendo nuovamente illegale l’aborto il numero dei bimbi non nati possa subire un calo in favore di quelli che invece vedranno la vita. Pensano che sia assimilabile al divieto di fumo nei ristoranti e che, dopo la legge, l’equazione lineare dovrebbe essere “non posso abortire e quindi me lo tengo”?
Ma questi delinquenti lo sanno che dietro la decisione di interrompere una gravidanza c’è una quantità di dolore che nessun uomo è in grado di immaginare. Che, al netto di rari ed isolati casi riguardanti scelte incoscienti e superficiali, la quasi totalità delle madri che ha abortito ha sperimentato un vero e proprio lutto.
Perché dietro ogni bambino non nato ci sono notti insonni e lacrime e rabbia e paura e resa. E per quelle mamme il loro bambino sarà sempre tale, anche se hanno scelto di non vederlo mai, e non il “prodotto abortivo” che viene descritto nei fogli della burocrazia.
Forse gli uomini non lo sanno, ma le mani di una mamma in una sala d’aspetto che attende il suo turno per porre fine alla gravidanza, stanno per tutto il tempo posate su quell’accenno di pancia, anche quando è poco più prominente dell’esito di una colite. E restano poggiate lì, con delicatezza, fino a che quella donna non scomparirà dietro il vetro della porta del reparto di ginecologia. E non sanno che sicuramente lei piangerà per tutto il tempo, e anche dopo. Perfino quando avrà il cuore così anestetizzato da non riuscire più a versare una lacrima non trascorrerà un solo giorno della sua vita in cui non dedicherà un pensiero, anche fugace, a quel bambino che portava in grembo.
Gli spagnoli dovrebbero sapere che quando una donna è approdata a quella decisione, a torto o a ragione, è perché evidentemente rappresentava l’unica via percorribile. E quella donna la via la percorrerà fino in fondo, anche quando la possibilità di un’interruzione di gravidanza le verrà negata in ambito ospedaliero. Cambieranno le modalità, non verrà rivisto l’obiettivo.
Lo Stato, che dovrebbe tutelarla, diventerà nemico costringendola a ricorrere alla geografia della clandestinità. Perché se viene disconosciuto un basilare diritto di scelta, la situazione impone al groviglio di valori di quelle donne a rimodularsi rispetto alla necessità di trovare una qualunque via d’uscita. Ed ecco che ritornerebbero alla ribalta i luoghi improvvisati e malsani frutto di sistemi che, sulla necessità e sulla disperazione delle donne, hanno costruito ingenti fortune.
Vogliamo tornare all’assunzione di decotti di prezzemolo oppure ricorrere alla tossicità dello zafferano? Cosicché quel feto talmente avvelenato venga sputato fuori dall’utero? Altrimenti le iniezioni di acqua saponosa, iodio o fenolo che sortirebbero lo stesso effetto. O anche un’altra opzione: quella meccanica. E allora via libera all’introduzione di tamponi, di lamine, cannule, addirittura chiodi e raschiatoi con l’incognita, tutt’altro che remota, di barattare la propria vita con una setticemia.
Sono grata alla mia esistenza che mi ha preservata da un’eventualità cosi dolorosa e se fosse capitato non so davvero cos’avrei deciso. So solo che avrei voluto la possibilità di scegliere.
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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