“Com’eri vestita?” Brutta domanda, soprattutto se rivolta ad una donna che è stata violentata, derisa, svuotata della propria dignità. Perché magari qualcuno continua a pensare che se l’abito fa il monaco la minigonna induce alla violenza. La domanda, purtroppo, è stata posta negli anni a molte donne in molte parti del mondo, giusto per dimostrare quanto è radicata l’idiozia e la superficialità di osservare i problemi. Però mi ha meravigliato che la domanda, almeno a quanto risulta da alcune testimonianze, ad una donna violentata sia stata stata posta da un’altra donna, quasi a voler giustificare, seppure inconsciamente, quel gesto. Perché diciamocelo: il consiglio di come stare al mondo prevede anche un comportamento “morigerato” e non provocante anche perché l’uomo, si sa, è cacciatore. Lo dico per provocare e un po’ mi vergogno che ci siano ancora sacche di pensiero così oscurantiste e terribili, lo dico perché se andate a vedere la mostra allestita a Milano in questi giorni (se vi capita si trova in via De Amicis, organizzata dal centro anti-violenza “cerchi d’acqua” e l’ingresso è gratuito) vi renderete conto che molte donne erano vestite in maniera del tutto informale: maglioncini, scarpe, gonne sotto il ginocchio, scarpe da tennis, jeans. Vi renderete conto di quanto sia stupido continuare a porre questa domanda e quanto sia urgente, invece, porne un’altra: “Perché calpesti la dignità di una persona? Perché una maglietta, un colore di rossetto, un sorriso, un paio di scarpe o di calze devono necessariamente indurti a pensare di avere davanti qualcuno che ti sta aspettando e desiderando?” La domanda va posta chiaramente a chi ancora non ha compreso che non è l’abito a fare il monaco ma il rispetto per chi porta quell’abito, senza tener conto della taglia, della qualità e dei colori. Le donne non hanno bisogno di domande idiote, è ora di finirla di chiedere “com’eri vestita” e utilizzare come corollario “allora te la sei cercata”. Chi continua a pensarla in questo modo è fuori da qualsiasi recinto sociale.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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