Non so proprio cosa mi prese quel giorno, di fronte al banco del negozietto di “generi coloniali” del signor Nanni sotto casa mia, ma ebbi come uno strano blocco.
Parlavo già correntemente l’italiano, avevo sette o otto anni, ma quella frase mi era diventata difficile, quasi impossibile da pronunciare, una banalissima frase che non so perché non uscisse quel giorno dalla mia bocca, senza farmici inciampare con la lingua, “una coca cola”, dico, una coca cola, ma già sulla prima c, avevo come un blocco. Eppure l’avevo detta tante altre volte, ma quel giorno nisba, non mi riusciva nonostante per le scale e per quei dieci metri che dovevo percorrere per raggiungere la bottega ci provassi più volte e, davanti a quel bancone, quando il simpatico salumiere mi chiese “cosa ti servo?”, per superare quel blocco decisi di optare per un più semplice “la coca cola”, che scandii senza nessun difetto.
Fu la prima volta, credo, per me, che conobbi la soddisfazione di avere trovato, da solo, un rimedio ad un problema. Questo mi infuse una calda emozione che solo più tardi scoprii essere l’ottimismo. E da quel giorno non me la sono più dimenticata. Così come tante altre cose che nel tempo, sempre da autodidatta, hanno piano piano arricchito la mia esperienza di vita.
Imparai, grazie anche ai consigli di mio padre e di tutta la mia famiglia, a trarre sempre ciò che di positivo, anche residuo, si può trovare anche nelle situazioni peggiori e lo misi in pratica, per quanto possibile, in tutti campi della mia esistenza, e che anche quello era ottimismo, positività.
D’altro canto, mentre studiavo o facevo i compiti, il mio orecchio seguiva curioso quello che strani personaggi, serissimi, tutti grigi, raccontavano da quella scatola che era la televisione. I telegiornali. Li ascoltavo e molto di quello che dicevano era per me incomprensibile, sentivo parole e frasi di cui non capivo il significato, ma quando partivano i servizi filmati, allora anche i miei occhi si spostavano dal libro per posarsi sul magico marchingegno elettro-domestico. Alcuni erano noiosi, altri mi catturavano, assorbivano la mia attenzione e il mio sentito, altri ancora mi rendevano triste e pensieroso, come le scene di guerra dal Viet-Nam o le catastrofi di terremoti, sciagure e di altre guerre. Ma quell’ottimismo, insieme ad una discreta fantasia, mi sorreggevano e mi portavano fuori da quello sconforto. Il mondo stava progredendo ed il progresso lo vedevo, lo vedevamo quasi tutti allora, come un qualcosa di positivo. Così ce lo presentavano.
Non riconoscevo quindi, in certe innovative invenzioni, la drammaticità o la pericolosità di cose che all’apparenza erano normali ma che in realtà avrebbero causato poi enormi sofferenze e danni. Nessuno ci pensava, si pensava che siccome il progresso era buono, chi ne teneva le redini lo fosse altrettanto. Mica lo capivo allora, che al signor Rovelli non gli importasse nulla dei veleni che stava spargendo a pochi chilometri da casa mia in terra e in mare. Ma non appena ebbi occasione di potere andare in giro con i miei amici, quando andavamo a fare il bagno alla Marinella, perché lì vicino abitava la famiglia di un allevatore amico di miei parenti e correvamo a vedere il passaggio dei muggini e delle spigole nella foce del Rio Mannu, cominciavo ad accorgermi che qualcosa di storto e di schifoso pure ci fosse, me ne accorgevo eccome. L’odore, prima di tutto, un tanfo acre e insopportabile, pesante. Poi l’acqua, calda, la cui superficie presentava delle larghe macchie iridate e oleose che rendevano oleosi pure i pesci che da quell’acqua tiravamo fuori, alcuni già morti a pancia in su, pesci che mai mangiammo, per fortuna, li davamo ai gatti o a qualche cane randagio di passaggio e forse non gli stavamo facendo un favore. Il fango sulle sponde, spoglie di vegetazione e laddove ve n’era ancora, tutto era di uno strano giallore, untuoso. Anni di campeggio in spiagge bellissime mi avevano abituato a ben altre acque e ben altre sponde. Ritenevo quindi quel brutto fenomeno limitato e pensavo che ci si sarebbe potuto porre riparo, ce lo ripetevamo fra compagnetti imberbi, che la tecnologia poteva sistemare tutto, e ci credevamo. Ottimismo.
Pensavamo che il livello di conoscenza, di intelligenza raggiunto, “il progresso”, potessero trovare rimedio e cura a tutti i mali e che ci si stava avviando verso un mondo migliore. Illuso ottimismo.
Più passavano gli anni, e più da quella scatola luminosa venivano fuori notizie negative. Le guerre aumentavano, nuove malattie ed epidemie saltavano fuori da ogni dove, il clima del Paese era quello degli anni di piombo, di parlare di crisi non si è smesso mai, ma quel fondo di ottimismo c’era sempre, solo che cominciavo a capire che era, forse, più fiducia in me stesso che non fondata positività. Le spiagge che anni prima avevo goduto per interi mesi cominciavano a trasformarsi, costruzioni, strade, pali elettrici ed automobili, sempre più persone accalcate e sempre meno spazi liberi dove campeggiare liberamente, sino al totale divieto, nascevano i camping organizzati. A capire che quella scienza che credevo amica si è sempre più messa al servizio di chi amico dell’Umanità e di questa Terra non è. Che quei farmaci forse non curano ma ti tengono, malato, in vita, per poterli solo consumare. E quell’ottimismo cominciava a scemare, ma restava in me la fiducia che sarei stato un giorno capace di fare qualcosa per scongiurare quel cambiamento che a me non andava proprio giù. Smisi di pescare quando, da una immersione all’altra, vedevo i fondali trasformati, trasfigurati da impietosi cercatori di datteri e di cannolicchi o dallo strascico e sempre meno varietà di pesci, molluschi e crostacei. Cercavo di coinvolgere altri in questa mia preoccupazione, ma pareva che fossi io lo scemo, nessuno mi dava retta o, al massimo, mi dicevano di non preoccuparmi, che i pesci sarebbero tornati e che il mare e la terra si sarebbero puliti da soli, col vento!
I giorni passavano mentre ad ogni sversamento di petrolio in mare si succedevano sempre un terremoto, un incendio, una alluvione, una catastrofe o un’altra guerra, ed io continuavo a fare la mia parte, a non pescare, a non sprecare l’acqua, a non gettare l’immondizia per terra. Ma le cunette, le spiagge, le strade e il mare stesso, di immondizia ne accumulavano sempre più. “Cercare sempre il positivo anche nelle cose negative”, ho continuato a ripetermi sempre, per non scoraggiarmi.
Poi arrivò Chernobyl, oggi c’è Fukushima, arrivarono i tumori più strani e malattie sconosciute, intere razze animali che si estinguono, i pesci non tornarono e quando lo facevano, e lo fanno, è per spiaggiarsi come le grandi balene o interi gruppi di delfini, si scopre che un’isola di plastica grande quanto una nazione vaga per gli Oceani insieme a chissà quante radiazioni e porcherie sonore ed elettromagnetiche. Storie di questi giorni.
Quell’ottimismo ridotto a un lumicino ma continuo a non pescare, a non cacciare, a piantare alberi e non sprecare l’acqua, a preferire tenda e sacco a pelo ad una villa sul mare, a produrre sempre meno immondizia ed a riciclare quanto e più posso riciclare per consumare sempre meno. A sognare che sempre più persone facciano altrettanto e che sempre più gente impari a riconoscere che quella fiducia, che io ancora conservo in me, può averla chiunque, se solo volesse e che così facendo questo mondo sarebbe davvero migliore. Ed anche questo, in fondo, è ottimismo.
Di coca cola non è ho più ordinata ne’ bevuta. Ma comincio anche a chiedermi, oggi, nel vedere cosa tutto mi circonda, che non sia davvero io, lo scemo?
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