Coloro che sono maturati politicamente nei primi anni del nuovo millennio ricorderanno quel gruppo di funzionari, accademici, intellettuali e pubblicisti che circondavano George Bush junior, i “neoconservatori”, o “neocon”. Ormai, a distanza di tredici anni dall’aggressione all’Iraq (sarebbe ora di smetterla di ricorrere all’orwelliano termine “intervento”), le origini e lo sviluppo di questa curiosa consorteria di imperialisti impenitenti sono note: il loro emergere negli anni Sessanta in ambienti democratici; le giovanili simpatie trotskiste di alcuni dei principali esponenti della corrente, in particolare colui che ne viene spesso indicato come padre fondatore, Irving Kristol; l’influenza determinante del filosofo Leo Strauss; le alterne fortune nell’influenzare la politica estera delle varie amministrazioni americane, democratiche o repubblicane; sino all’ascesa trionfale durante i due mandati presidenziali del rampollo della famiglia Bush.
Infine l’oblio. Richard Perle, Paul Wolfowitz, Robert Kagan, Michael Ledeen, i Kristol, padre e figlio, tanto per citare i più noti, sembrerebbero essere scomparsi dalle cronache politiche, al pari dell’altra colonna portante della presidenza Bush, i cristiani evangelici. E tuttavia, se i suddetti personaggi non godono più dell’influenza dei bei tempi andati, l’ideologia di cui sono stati paladini vive e lotta insieme a noi, o meglio, continua a fare danni. Tra le sue principali caratteristiche l’ossessione per il Vicino e Medio Oriente, intesi come una sorta di pongo da modellare a favore degli interessi statunitensi, tramite un militarismo aggressivo, unilaterale e mascherato da umanitarismo, ma non necessariamente, altra particolarità dei neocon, infatti, è la sfacciataggine nell’affermare la legittimità degli interessi imperiali USA. Nella loro paranoica furia ideologica tutto si confonde: barbuti estremisti islamici, Ayatollah iraniani, laici e baffuti dittatori arabi, palestinesi. Molteplici manifestazioni di un’unica entità, un’idra dalle molte teste, animata dall’obiettivo di attaccare “il mondo libero”, ossia, gli Stati Uniti e i loro vassalli.
L’Iraq attuale, ammesso che una simile entità statale esista ancora, può essere considerato il più importante lascito dei neoconservatori. Una volta sedata, sotto la guida del generale Petraeus, la resistenza all’occupazione americana, applicando spregiudicatamente la vecchia strategia del divide et impera, fomentando dunque le divisioni settarie e confessionali, ciò che rimane è una società distrutta nelle sue infrastrutture materiali, intellettuali e culturali, e come ciliegina sulla torta, l’ISIS. Tutte cose risapute, anche in una periferia dell’impero come l’Italia. Meno conosciuta, forse, è l’ennesima trovata degli ultimi giapponesi che si attardano a difendere la guerra in Iraq, perfino dopo che Blair, a denti stretti, ne ha ammesso le conseguenze disastrose, ISIS compreso: l’emergere di quest’ultimo, a detta di costoro, sarebbe da attribuire niente meno che a Saddam Hussein (si veda, per esempio, Kile W. Orton, del think tank neoconservatore Henry Jackson Society http://www.nytimes.com/…/how-saddam-hussein-gave-us-isis.ht…).
La base della stravagante tesi è grossomodo la seguente: Saddam avrebbe imposto all’Iraq una sua versione dell’islamismo, passando cinicamente dall’ideologia nazionalista e secolare del partito Baath al salafismo. Altri, più esperti, si sono occupati di demolire a dovere simili enormità (https://www.foreignaffairs.com/…/i…/2016-01-12/saddams-isis…). Qui interessa mettere in luce l’ostinazione con la quale questi ambienti perseverano nell’assolvere gli Stati Uniti, e i loro più o meno riottosi alleati regionali, dalle loro responsabilità nel favorire l’ascesa dell’ISIS nonché di altri gruppi fondamentalisti (https://wikileaks.org/plusd/cables/09STATE131801_a.html…). Tanto più che la probabile futura Presidentessa degli Stati Uniti, Hillary Clinton, non è mai stata insensibile alle sirene dei neoconservatori: dopotutto, la sua politica estera, nel suo ruolo di Segretaria di stato, è stata una prosecuzione di quella da questi propugnata. Viene da pensare, con sconforto, che nonostante l’eclissarsi dei necon e della loro ideologia, per loro non sia ancora giunto il momento di finire, per evocare ancora una volta lo spettro di Trotsky, nella “pattumiera della storia”.
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