Per affrontare seriamente l’argomento, occorre una preparazione che io non ho e che probabilmente non avete neanche voi. Però ci tocca provare, tutti, a non girarci dall’altra parte.
Sullo sciopero del Colosseo e i fatti successivi ognuno ha un’idea. La mia è confusa. La questione è un pettine su cui si bloccano molti nodi e le prese di posizione ideologiche (sciopero si, sciopero no, ecc) non aiutano.
Pare che lo scontro sia maturato dopo mesi di trattative infruttuose sull’erogazione del salario straordinario.
Al di là dei codici e degli statuti, ogni volta su cose del genere, la stampa e la rete si scaldano per qualche giorno, rivelando sensibilità al problema.
Io di sindacati capisco poco, specialmente di sindacati che si occupano dei dipendenti della Pubblica Amministrazione. Però credo che i lavoratori pubblici abbiano diritti e tutele che molte altre persone non hanno. Siccome viviamo tutti all’interno dello stesso sistema economico (che è in realtà un sistema organizzato per sottosistemi), il fatto che all’interno del sistema (l’Italia in questo caso) alcuni lavoratori abbiano diritti che ad altri sono negati, spiega bene la sensibilità dell’opinione pubblica al problema. Bisogna chiedersi se la sensibilità abbia poi buoni argomenti, perché spesso gli strali contro i dipendenti pubblici arrivano da chi non sopporta le tasse, lo stato sociale ecc. Ma la sensibilità c’è, è un dato.
Eliminando i ragionamenti troppo ideologici (mercato si, mercato no, appunto, o sciopero si, sciopero no) credo che un concetto chiave su cui ragionare sia quello di “risorsa”.
I lavoratori pubblici vengono pagati con risorse pubbliche, cioè della collettività. I lavoratori privati vengono pagati con soldi dei privati. I liberi professionisti e le imprese vengono pagati dai clienti, dal mercato in cui si sanno posizionare. Quando questi clienti sono enti pubblici, si nota la differenza di trattamento, ad esempio nei tempi di pagamento. Il patto di stabilità infatti, ma spesso anche l’inerzia della burocrazia, fanno sì che una ditta che ha lavorato per un Comune debba aspettare mesi o anni per vedersi pagare i servizi erogati. Laddove gli stipendi dei lavoratori di quello stesso comune (compresi gli straordinari, il salario accessorio, i buoni pasto, la monetizzazione delle ferie non godute ecc) viaggiano su corsie intoccabili o comunque scorrevoli. I precari e i disoccupati invece vengono pagati male o non vengono pagati, spesso anche quando spetterebbe loro di diritto (vedi i casi di ritardi non negli straordinari ma negli assegni di disoccupazione).
Ma tutte queste transazioni, nonostante i nomi diversi (stipendio tabellare, indennità di comparto, tariffa, parcella, quietanza, assegno di disoccupazione ecc) sono “risorse”, sono “ricchezza” che si muove all’interno del sistema e che, se volessimo paragonare un sistema economico a uno ecologico, corrispondono alla rete alimentare. Le parti del sistema per vivere hanno bisogno di “accedere” alle risorse, al “cibo”. E certi problemi nascono proprio intorno alla questione dell’”accessibilità” delle risorse, che non è per tutti uguale.
Ecco, questo è un tema da tener presente. Una sorta di modello che serve ad interpretare situazioni di portata differente. Spostando i termini, la disparità di trattamento tra lavoratori all’interno di un paese, presenta analogie con la disparità di condizioni tra individui di paesi diversi. È sempre un problema di accesso alle risorse.
Che uno abbia l’acqua e uno no, che uno abbia una casa e l’altro no, che uno abbia diritto allo sciopero e l’altro no, che uno abbia diritto di sposarsi o adottare un figlio e l’altro no, che uno abbia la possibilità di accedere al credito agevolato e un altro no, che uno possa usufruire di crediti d’imposta e l’altro no, che uno abbia la possibilità di maturare salari accessori e straordinari con facilità e un altro no, che uno possa sperare in una pensione e l’altro no, sono tutti frangenti che creano inevitabilmente delle relazioni di tensione, che possono sparire solo eliminando la differenza di trattamento, oppure eliminando (oscurando, tacitando) uno dei termini della relazione, di solito il più debole (l’immigrato, il precario, l’omosessuale, il lavoratore del call-center, la piccola impresa, il disoccupato ecc).
Torniamo alla vicenda del Colosseo e a uno dei suoi aspetti: con lo sciopero convocato in un certo modo si può creare disagio alla collettività e dunque attenzione alla propria rivendicazione; se è giusto difendere il principio che scioperare è un diritto, è anche giusto –per capire il tipo di reazioni che suscita- non fermarsi qui e inquadrare anche questa situazione entro contesti più ampi. È giusto che i dipendenti pubblici abbiano, di fatto, più diritti degli altri e più strumenti per rivendicarli? È giusto che la ricchezza circoli con velocità diverse a seconda del comparto? È giusto che la Cultura entri a far parte dei servizi pubblici essenziali? È giusto, e in che termini, che la difesa di un diritto si traduca nella perdita di un altro diritto?
Prima di elencare altre domande faccio notare che se in Italia possiamo aspirare (non tutti ma alcuni si) a certi diritti, è perché il sistema contiene abbastanza ricchezza da potercelo permettere. Questo vale per tutti noi che -per quanto scalcinate siano- abbiamo accesso a un’istruzione pubblica e a una sanità pubblica che ci consentono di vivere in modo abbastanza dignitoso. Ma non è scontato e non è gratis, e anzi perché ciò avvenga è necessario entro certi termini che l’Italia goda, come altri paesi ricchi, della possibilità di sfruttare risorse che in un mondo migliore vedrebbero partecipare al banchetto anche paesi e comunità che al momento ne sono esclusi. E allora mi chiedo, è giusto che la ricchezza delle nazioni ricche poggi il culo sulle difficoltà delle nazioni povere? È giusto che un essere umano debba rischiare la pelle su un barcone? È giusto che un paese non partecipi a un’azione di sostegno ai migranti insieme ai paesi vicini? Domande banali ma, capite bene, inevitabili, perché discendono dalle premesse sulla disponibilità delle risorse.
Ecco, io credo che se ci mettessimo veramente a valutare le cose all’interno di cornici più ampie, la nostra idea di cosa è un diritto, cosa è un’ingiustizia e cosa è una risorsa, si arricchirebbero in profondità, complessità ed efficacia dal punto di vista cognitivo. E le vicende come quella del Colosseo diventerebbero occasioni preziose per crescere.
Però non lo facciamo quasi mai, e preferiamo dividerci, tutti, su sciopero si, sciopero no, Renzi si, Renzi no, Italia si, Italia no.
Panem et circenses, appunto.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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