Avevamo 15 anni e la gonna corta e i sandaletti rasoterra. Quelli stile indiano, di cuoio, dove in un occhiello stretto dovevi infilare l’alluce e il resto della suola restava libero di sgusciarti via dalla pianta del piede. Quelli con cui è difficilissimo camminare e che ti fanno rientrare a casa coi piedi colmi della terra di giugno dopo la scuola.
Avevamo voglia di stare in mezzo agli amici, immersi in quella fetta di adolescenza che ci concedeva il beneficio di fregarcene del mondo intero. Erano anni in cui la solitudine, la misantropia, il solipsismo riflessivo erano roba da sfigati e da emarginati.
All’uscita di scuola si andava tutti quanti alla fermata dei pullman, una vecchia porzione del paese dove i pendolari aspettavano il mezzo che li avrebbe condotti nelle loro case e dove noi indigeni mangiavamo patatine e, fra una risata e l’altra, fingevamo di essere grandi. Stavamo lì, in quell’ammasso di calcestruzzo muto e sordo che portava sul viso le crepe e i solchi del degrado e che per un po’ riuscivamo ad animare di vita palpitante. Una volta partiti tutti gli autobus, intorno alle 14.30, tornavamo a casa.
Era capitato proprio mentre rientravo e percorrevo senza fretta una ripida salita, con quei dannati sandaletti ai piedi. Procedevo a passi lenti, con lo stomaco che gorgogliava per la fame e nelle tasche ancora la risacca di allegria.
– Ehi, pssssss! – avevo sentito alle mie spalle.
Una sensazione, forse. Non l’avevo assecondata e avevo proseguito il mio cammino senza voltarmi indietro.
– Ehi psssss! – più forte.
No, non era un’impressione. Qualcuno mi chiamava, in quel paesaggio deserto e silenzioso, come solo la periferia di un paese sa esserlo in un infuocato pomeriggio estivo. Mi ero girata e ai miei occhi si era offerta un’immagine che ricordo ancora grottescamente nitida: un anziano signore mi seguiva, con un rivolo di bava alla bocca. Avrà avuto una settantina d’anni, o forse meno e mal portati, un abbigliamento troppo pesante e inadeguato per un’assolata giornata di giugno. Anche la berritta in testa. In principio non avevo fatto caso alle sue mani che, mentre pronunciava parole incomprensibili, mi indicavano la braghetta. Lo sai bene che se ti dicono non pensare all’elefante è proprio all’elefante che penserai. E fu così che io in quella patta sbottonata, dove non volevo posare gli occhi, ci guardai. Perché loro, gli occhi, ci erano andati da soli. La braghetta era abbassata e il sesso del proprietario pendeva fiacco, come un asparago lesso. Forse mi era anche scappato un gridolino, questo non lo ricordo bene. Ma sono certa che dentro di me quell’urlo era esploso, a squarciagola.
E avevo iniziato a correre correre correre… Con quei maledetti sandali ai piedi, sotto un sole che spaccava i sassi.
Lo sguardo anziano lo sentivo addosso, pesava sulla mia schiena e le poche volte in cui mi ero voltata, per non rallentare la corsa, avevo realizzato che lui era sempre dietro. A tre spanne dal mio culo. Il vecchio signore si era arreso solo quando mi aveva vista varcare l’atrio del palazzo, il cui portoncino restava fortunatamente sempre aperto.
Solo allora era andato via ed io ero rimasta lì, seduta sul primo gradino, a piagnucolare e riprendere fiato. Ero salva.
Non voglio sminuire i terribili fatti di Colonia né svalutare la loro gravità, vanno condannati e puniti senza sconti, perché non devono esistere dei luoghi nei quali una donna non corre pericoli fino a quando sta dentro lo spazio. Ma queste cose accadevano anche trent’anni fa, in un anonimo paese della Sardegna ad opera di un vecchio porco abitante del luogo. Non tutti i vecchi sono porci e non tutti i porci sono extracomunitari. Ma tutti i paesi possono essere Colonia, purtroppo.
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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