Leggendo l’articolo di ieri di Fiorenzo Caterini, apparso su Sardegnablogger “Cronace dalla Sardania. Le ragioni profonde del boom della Lega in Sardegna”, volevo inizialmente controbattere alla sua bella e durissima analisi sul perché i sardi abbiano votato la Lega (una vera e propria sindrome di Stoccolma, ha chiosato Fiorenzo e ha, in parte, ragione). Poi mi sono ricordato di un concetto che poteva servire ad un’analisi diversa che partisse si dal disagio sociale ma non necessariamente da quello sardo. Perché se restiamo solo dentro il nostro ovile si rischia di non comprendere quello che è accaduto davvero il 4 marzo in Italia e se analizziamo tutto in termini ideologici (un po’ come siamo abituati a fare noi del secolo scorso) rischiamo di non comprendere appieno perché un popolo apparentemente immobile, costruito in blocchi sociali ed ideologici, di colpo ha modificato la sua scelta passando tranquillamente dal PD alla Lega o dal PD a cinque stelle. Perché di questo, soprattutto, si è trattato: la sinistra ha emigrato verso altre sponde che non sono destra e non sono sinistra. Queste persone, queste genti, queste moltitudini non hanno tradito il loro “credo”, perché far parte di un partito è cosa superata da anni: oggi ciò che conta è la velocità e non la durata. L’emigrazione messianica è accaduta perché le ideologie sono state distrutte, è vero, o anche perché , come ci ricorda molto bene nella sua lucida analisi Caterini “la gente sfoga la sua rabbia nei confronti di quelli ancora più poveri e disgraziati di loro, e vota quelli che appaiono come uno di loro, che manifestano gli stessi fastidi e le stesse paure, che si atteggiano ad antipolitica, a non-partito con un non-statuto, che si presentano come estranei al mondo politico o come il rottamatore di turno della vecchia classe dirigente”. Cosa è successo? Ed ecco che il concetto che mi girava da qualche giorno si è materializzato leggendo il pezzo di Fiorenzo e sono tornato a recuperare un libro di Andrzej Stasiuk, lo scrittore e poeta polacco, autore del bellissimo libro “Il cielo sopra Varsavia”, ma anche di alcuni saggi interessanti improntati sull’analisi delle culture contemporanee e del loro disagio. Cosa dice Stasiuk (e lo diceva nel 2002) di tanto importante e utile per comprendere il voto degli italiani del 4 marzo 2018? Lui parla di “sottoproletariato dello spirito” e avanza l’ipotesi che le file di questo nuovo sottoproletariato si ingrossano rapidamente e che “i suoi tormenti scolano a profusione permeando strati sempre più ampi della piramide sociale”. Ma, soprattutto, dice una cosa importantissima: “Chi ha il morbo del sottoproletariato dello spirito” vive nel presente e grazie al presente. Vive per sopravvivere (…) e il mondo abitato dai sottoproletari dello spirito non lascia spazio che a preoccupazioni riguardo a ciò che si può, almeno in linea di principio, consumare e degustare subito, qui ed ora”. (Andrzej Stasiuk, sottoproletariato spirituale, Mirandini, 2002). Non solo rabbia dunque, non solo disperazione ma vivere nel presente e grazie al presente. Questo mondo è terribilmente appiattito nel presente e non lascia nessuno spazio al futuro: si deve consumare e degustare il qui ed ora. Ciò che conta è la velocità, non la durata. Lo abbiamo notato nelle elezioni che hanno visto trionfare Macron in Francia, in qualche misura Trump in America ma anche Berlusconi nel 1994 in Italia. Ciò che conta è la velocità, non la durata. Non voglio con questo esprimere giudizi ma evidenziare un dato di fatto. Sono convinto che fra dieci anni avremo scenari essenzialmente diversi perché, quasi sicuramente, arriveranno le delusioni e in politica, dopo l’innamoramento, non c’è posto per l’amore. La fase successiva è semmai rancorosa e all’interno della velocità diventa voltatile ed effimera. Noi siamo figli di un mondo che non esiste più, dove non c’era l’acceleratore e dove non c’erano le regole del mercato. Di questo mercato. Ormai siamo stati educati al consumo sfrenato e velocissimo, ci siamo abituati a dimenticare facilmente tutto. Siamo stati, in qualche maniera – senza che ce ne rendessimo conto – rieducati al nuovo stile di vita e anche di voto: non ci sono più le mezze stagioni e non ci sono più i partiti politici che erano come “la squadra del cuore”. Anche questa è un’osservazione di ciò che accade e non vuole essere una critica. Non voglio (e non ho nessuna voglia, credetemi) dire che Salvini è furbo, Di Maio è scaltro, Renzi un pollo, Berlusconi un comico al tramonto. Non è questo il punto: voglio solo provare ad osservare il flusso delle persone e l’analisi dei bisogni primari che rimangono da sempre il nutrirsi, il dissetarsi, dormire, divertirsi, ai quali si sono repentinamente aggiunti alcuni bisogni indotti: siamo davvero all’egemonia culturale di gramsciana memoria e siamo, come ci ricorda Caterini, “sulla incredibile capacità delle forze egemoniche di instaurare veri e propri processi di destrutturazione culturale, piuttosto che di egemonia. Cioè di ingenerare mediante l’amplificazione di fatti di cronaca e l’invenzione massiccia di “bufale” delle patologie sociali con scopi antidemocratici e di conservazione del potere e delle rendite di posizione.” E’ questo il punto? O, piuttosto, è un problema di ridefinire il processo educativo? Dobbiamo riparare verso una “pedagogia critica” in una società che sembra rassegnata al potere del mercato, inteso anche come “mercato delle idee?” Henry Giroux, uno dei teorici fondatori della pedagogia critica e considerato uno dei migliori pensatori educativi del periodo moderno, ha scritto che “in opposizione alla mercificazione, alla privatizzazione e alla commercializzazione di tutto ciò che ha a che vedere con l’educazione, gli educatori devono definire l’istruzione superiore come risorsa vitale democratica e civile della nazione. La sfida che si pone ai docenti, ai lavoratori della cultura (…) è quella di unirsi nell’opposizione alla trasformazione dell’istruzione superiore in un settore commerciale. (Henry Giroux, Riprendersi l’educazione, Rubettino, 2004). Quello che vorrei evidenziare – e capisco quanto sia complicato – è che queste elezioni sono state semplici e semplicistiche. Ce lo ricorda Zygmunt Bauman quando afferma che: “in una società di individui ciascuno deve essere un individuo: almeno in questo senso, chi fa parte di una simile società è tutto fuorché un individuo diverso dagli altri, o addirittura unico. Al contrario, ciascuno è incredibilmente uguale agli altri. (…) L’individualità è legata allo spirito della folla. (Zygmunt Bauman, Vita liquida, Laterza). Ecco quello che in buona sostanza è accaduto il 4 marzo 2018 in Italia: l’individuo è diventato folla e ha scelto massicciamente un partito o un movimento che gli ha promesso il “qui ed ora”. Non voglio dire che tutto questo sia giusto o sbagliato, dico solo che è diverso da quello che, per esempio, pensavo io e molti filosofi dei tempi andati: che essere individui dovesse significare essere diversi da chiunque altro. Adesso, dentro questo sottoproletariato dello spirito, abbiamo piantato le tende ed osserviamo. Muti, ma osserviamo e proviamo a ripetere a voce alta: “Quello che conta è la velocità, non la durata”. E’ questo il vero programma di tutti i partiti, nessuno escluso. Con buona pace di Gramsci, Bauman, Giraux, Stasiuk e del mio grande e forte compagno di strada Fiorenzo Caterini.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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