Che bello quando c’era la destra al governo e potevamo dire che quella gente aveva paura della Cultura con la Q maiuscola. Già, perché a noi di sinistra capita ogni tanto nelle polemiche di imitare lo stile dei nostri avversari e li sfottiamo perché hanno un difetto fisico o una famiglia disordinata. Ma ora che a Roma e Cagliari non governa la destra, chi dobbiamo sfottere per le condizioni in cui versano le attività culturali? A casa nostra, a esempio. Non c’è istituzione pubblica o privata che ormai non veda avare matrigne nei principali enti erogatori, cioè Regione e Comuni. Il ritornello è “ci sono altre emergenze”. Che pure senza ripetere la volgarità formale del cult tremontiano “con la cultura non si mangia”, ne condivide tutto il senso demagogico. Nel mondo della cultura sarda, con le sue punte di eccellenza a livello nazionale, l’allarme è diffuso. E la risposta è che questo settore viene dopo altri genericamente definiti “più importanti”. Ma quali? L’industria, a esempio, dove la nostra classe politica non è riuscita a ottenere condizioni che ammorbidiscano la condizione di insularità? Che fine hanno fatto il metano e la promessa di compensare la sua assenza con un contenimento dei costi per l’energia? E i trasporti, la continuità territoriale? Sarebbero questi i settori più urgenti dove utilizzare le rimesse pubbliche? A proposito: ciao, Ryanair. Qui da noi hai fatto un bel po’ di soldi ma in compenso ci hai cambiato la vita. Vediamo ora che cosa sapranno fare i nostri politici che ti hanno lasciato volare via. Oppure la Sanità, dove da decine di anni si investe nella burocrazia, con un occhio alle trasversalità politiche, anziché soprattutto nella medicina e nell’assistenza e dove si parla di “riforme” in un’ottica aziendale quasi privatistica, più che in una cultura amministrativa da stato sociale, che è sempre stata la vera forza dell’assistenza sanitaria italiana, una delle migliori al mondo. Che fine fanno quindi i fondi sottratti all’inutile cultura. Inutile? Ma avete un’idea di che cosa siano in grado di produrre, nella nostra Sardegna, le compagnie teatrali, le biblioteche pubbliche, gli editori più o meno piccoli di libri e di informazione e comunque gli operatori culturali di ogni genere? Stanno creando a poco a poco una nuova classe dirigente, di concerto oggettivo con la scuola e l’università, sostituendosi, per dirne una, a strutture di massa quali i partiti e i sindacati. Sapete che è sempre più alto il numero delle persone che utilizzano la biblioteca pubblica come unico accesso ai libri? Purtroppo la crisi c’è davvero: ma la si risolve togliendo alternative a chi non può comprare i libri in libreria o i giornali in edicola? E sapete che cosa significhi per la nostra cultura (e, in termini direttamente economici, anche per il turismo) la rete delle associazioni folcloristiche sulle quali è calata la carestia dei fondi pubblici? E che cosa significhi la musica lirica nei gusti che si succedono di generazione in generazione e come volano di attività legate a questo settore? Ovunque, in questa disgraziata cultura, è incertezza: dalle scuole civiche di musica ai musei, dal cinema alla pittura. E’ questo il nuovo cammino verso la rinascita, dopo i tanti fallimenti degli ultimi decenni? Ma se per uscire dal tunnel dobbiamo calpestare la cultura, per quale motivo ne usciamo? Per fare che cosa? Per vivere quale vita? Forse, come promettono gli autori dei tagli, il buio della crisi si sta davvero dissolvendo. Però, che luce sinistra all’orizzonte.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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