Insegnate ai vostri figli quello che noi abbiamo insegnato ai nostri: la terra è la madre di tutti noi. Tutto ciò che di buono arriva dalla terra arriva anche ai figli della terra. Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su se stessi. Noi almeno sappiamo questo: la terra non appartiene all’uomo, bensì è l’uomo che appartiene alla terra. Questo noi lo sappiamo. Tutte le cose sono legate fra loro come il sangue che unisce i membri della stessa famiglia. Tutte le cose sono legate fra loro. Tutto ciò che si fa per la terra lo si fa per i suoi figli. Non è l’uomo che ha tessuto le trame della vita: egli ne è soltanto un filo. Tutto ciò che egli fa alla trama lo fa a se stesso. C’è una cosa che noi sappiamo e che forse l’uomo bianco scoprirà presto: il nostro Dio è lo stesso vostro Dio. Voi forse pensate che adesso lo possedete come volete possedere le nostre terre ma non lo potete. Egli è il Dio dell’uomo e la sua pietà è uguale per tutti: tanto per l’uomo bianco quanto per l’uomo rosso. Questa terra per lui è preziosa. Dov’è finito il bosco? È scomparso. Dov’è finita l’aquila? È scomparsa. È la fine della vita e l’inizio della sopravvivenza.
Non è chiaro se questo sia esattamente il testo di una lettera (improbabile) o un discorso tradotto e poi trascritto in inglese. Comunque sia, queste parole vengono attribuite al grande capo Si’ahl, meglio noto come Chief Seattle. Comunque sia, l’ultima frase di questo discorso ha l’aria di essere un‘inquietante profezia. Comunque sia, nel dubbio, prenderlo per buono mi pare cosa saggia, visto che parla del rapporto tra uomo, natura e divinità come di petali della stessa rosa.
Chief Seattle muore il 7 giugno del 1866 all’età di 80 anni, motivo per cui questa storia finisce sulla nostra agenda. Le cronache dell’epoca ce lo descrivono come una specie di mastodonte, alto e grosso, con una grande potenza vocale. Quelli della Hudson’s Bay Company lo chiamavano Le Gros. Il suo discorso dovrebbe risalire al 1854 ed è rivolto al presidente degli Stati Uniti, Franklin Pierce. Riguardava la decisione dei visi pallidi di appropriarsi delle terre in cui viveva la sua tribù, i Duwamish.
Ma questa non è la classica storia dell’indiano che combatte fino alla morte l’avanzata dell’uomo bianco. Chief Seattle conosce il significato di ineluttabilità, forse esisteva pure tra i suoi vocaboli. Trova il modo di risparmiare il sangue dei suoi uomini e quello dei Patkanim, altra tribù sul piede di guerra, con un patto d’onore (e soldi) con il Grande Capo bianco, Doc Maynard. Fortuna vuole che quest’ultimo sia illuminato quanto lui. Il nuovo insediamento dei bianchi sulle terre dei nativi si chiamerà Seattle, come il Grande Capo. E tanto basta per evitare massacri. La foto di Chief Seattle, quella che vedete in cima a questo articolo, è stata scattata nel 1865, un anno prima della sua morte.
Chief Seattle ebbe sette figli, tre maschi e quattro femmine. La primogenita, Kikisoblu, è meglio conosciuta come Princess Angeline. Così, infatti, decise di chiamarla la moglie di Doc Maynard. Quando, nel 1855, il Trattato di Point Elliot costrinse tutti gli indiani Duwamish a sloggiare dalla nuova città e trasferirsi nelle riserve, lei fece finta di niente. Rimase a Seattle, nella sua baracca davanti al mare, vicino al mercato della città, guadagnandosi da vivere lavando vestiti e vendendo cestini fatti a mano. Nel tempo, divenne una sorta di simbolo e comunque godeva di grande rispetto. La vecchia Kikisoblu camminava per le vie della città, curva con il suo bastone, il fazzoletto rosso in testa e lo scialle gettato sulle spalle. Era cristiana come suo padre, convertito dai missionari francesi. A Seattle non era difficile incontrarla mentre recitava il rosario sul marciapiede. Alla sua morte, nel 1896, l’intera città le tributò un omaggio.
È la fine della vita, l’inizio della sopravvivenza. Credo che Chief Seattle ne fosse consapevole.
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