“Un’onda di alcol, droga e morte travolge la movida del Salento”. Così lanciava il suo articolo, pochi giorni fa, l’inviata del Secolo XIX, quotidiano di Genova. Cercava di raccontare la morte del povero Lorenzo Toma, il 18 enne stroncato da un malore durante una serata in discoteca. Negli stessi giorni tutti i principali organi di stampa rilanciavano il teorema discoteca uguale droga. La sentenza era scritta: Lorenzo era un tossico che se l’era cercata. Il ministro Alfano, per non farsi cogliere impreparato, annunciava un inasprimento dei controlli nei locali notturni. Lorenzo non si poteva difendere. Potevano difendersi, ma mai avrebbero dovuto essere costretti a farlo, il padre e la madre: accusati dal sindaco di Gallipoli di non saper essere genitori.
Sarebbe bastato aspettare poche ore e l’esito dell’autopsia. Quell’autopsia che ha stabilito ben altre cause per il malore fatale di Lorenzo, vittima di una malformazione cardiaca che non sapeva di avere. Ma in fondo non c’era neppure bisogno di aspettare l’autopsia, bastava affidarsi al buon senso. In discoteca, come in qualunque altro luogo, si può morire per qualunque motivo, anche se è certo più intrigante montare un caso per speculare su una disgrazia. Negli anni novanta, uno dei temi caldi erano le cosiddette “stragi del sabato sera”, così si definivano gli incidenti mortali all’uscita delle discoteche. La stortura dei fatti era tale che il problema non sembravano la droga e l’alcool – le vere cause di quelle morti – ma il locale notturno. La gente continua a morire per gli incidenti stradali, eppure quell’espressione sembra dimenticata. Forse non va più di moda. Eppure l’alcolismo resta un problema, così come la droga: quante, delle migliaia di vittime lasciate sul terreno dall’eroina negli anni settanta e ottanta, sono morte in una discoteca?
Ora, chi chiederà scusa a Lorenzo? Chi chiederà scusa ai suoi genitori? Chi ai titolari del Guendalina? Chi spiegherà loro che i giornali sembrano non poter resistere alla tentazione di sparare un titolo, lasciando intravedere anche quel che in realtà non esiste?
Due settimane fa sono stato ospite del giornalista Giacomo Mameli, promotore di una rassegna letteraria a Perdasdefogu. Parlando del mio libro, il dibattito è scivolato sulle degenerazioni dell’informazione. E ho dovuto raccontare di quando, alcuni anni fa, l’Unione Sarda lanciò la notizia del pensionato Ignazio Fenudi, sorpreso a rubare per fame in un market di Is Mirrionis ma perdonato dai titolari e, anzi, beneficiario di una colletta degli altri clienti che gli consentì di fare la spesa. Bello, vero? Solo che quel pensionato non era mai esistito. A scoprirlo fu un giovane giornalista sardo, Enrico Fresu, che smontò la bufala. Nel frattempo, però, i quotidiani nazionali avevano rilanciato la notizia e alcuni di loro erano riusciti nella formidabile impresa di intervistare, con tanto di virgolettati, un pensionato partorito dalla fantasia di un cronista. Ci cascarono tutti, tranne uno. Si chiama Alberto Pinna ed era un giornalista sardo del Corriere della Sera. Dopo tutte le verifiche del caso, spiegò ai suoi superiori che in assenza di riscontri non avrebbe scritto una riga. L’informazione è un bene essenziale in una democrazia. Ma bisogna saperla scegliere: esiste quella drogata e quella sobria.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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