– Perché non ci fai un pezzo? – mi suggerisce in chat uno dei redattori di Sardegnablogger inviandomi il file di una pagina de La Nuova Sardegna.
Do un’occhiata furtiva al titolo “Ragazzo dislessico, smartphone vietato”. Inorridisco, naturalmente. Proseguo la lettura “Insegnante e dirigente lo minacciano di sospensione. La mamma: per lui è indispensabile”. Da docente non posso che provare stupore e incredulità, i sussidi informatici sono irrinunciabili nella metodologia a cui facciamo ricorso in casi di dislessia e disgrafia. Mi concentro nella lettura di tutto l’articolo e qualche passaggio mi fa aggrottare le sopracciglia.
Il giornalista afferma che lo studente si è avvalso degli strumenti informatici per tutti i tre anni della scuola media ma, stranamente, in prima superiore viene colto da un blocco, rifiutando di servirsene per non sentirsi differente dai compagni.
E già questo passaggio pone qualche interrogativo.
Perché l’insegnante non dovrebbe sgridarlo per l’improvviso utilizzo di un cellulare che, a quanto pare, non era mai entrato nella sua prassi didattica? Come mai il ragazzino, che non aveva mai adoperato lo smartphone prima di allora, lo tira fuori dalla tasca per “registrare i compiti a casa”? Diviene strumento urgente e vincolante da un minuto all’altro?
Nessuno di noi era presente in quella classe, ignoriamo cosa sia accaduto. Non conosciamo l’insegnante, non conosciamo la circostanza e non conosciamo lo studente.
Premetto che ho diversi alunni dislessici, aggiungo che smartphone, tablet e pc fanno parte dei loro sussidi quotidiani durante la lezione. Sottolineo che in più di un’occasione ho dovuto monitorare la loro attività perché beccati a giocare a Candy Crush Saga durante lo svolgimento della lezione.
Potete dunque affermare con assoluta certezza e senza possibilità di smentita che l’alunno menzionato nell’articolo non fosse affaccendato nel superamento del 2^ livello di un qualche videogioco? E siete altrettanto sicuri che l’insegnante non gli abbia impedito di usarlo per questo motivo?
Qualcuno di voi potrebbe pensare che un genitore non si prenderebbe la briga di denunciare il caso se non fosse assolutamente sicuro di operare per il bene del figlio.
Ed anche qui devo smentire, con l’esperienza, molte vostre certezze perché, mio malgrado, raccolgo nel carniere una moltitudine di esempi pedagogicamente inqualificabili dei quali alcuni genitori si sono resi protagonisti nel corso degli anni. Ho visto coi miei occhi genitori procedere legalmente nei confronti della scuola, rea d’aver sanzionato il loro pargolo con una sospensione perché scazzottava in classe col compagno di banco. Ho sentito con le mie orecchie una mamma giustificare l’assenza della figlia da scuola adducendo un febbrone da cavallo quando avevo appena visto la ragazzina, mia alunna, che prendeva beatamente un cappuccino insieme alle amiche in un bar del centro.
E potrei citare altre decine di esempi dove l’istinto da mamma chioccia si è trasformato in pessima complicità, producendo più danni che benefici nell’educazione dei ragazzi.
Ma potrei, certo, citare anche tanti esempi di pessimi docenti che per pressapochismo, negligenza, superficialità, pigrizia o poca competenza hanno danneggiato la formazione di alcuni loro sfortunati studenti.
Tanti tanti anni fa, in occasione di quella che era una delle mie prime supplenze in una classe I elementare, ricordo nitidamente che cercavo di insegnare ai bimbi i concetti topologici: destra e sinistra. Inutile ripetere “la mano con cui scrivete è la destra” o “la mano con cui tenete le posate”, a parte i mancini che avrebbero avuto qualche perplessità, i piccoli alunni non hanno capacità di astrazione e allora diventa necessario attingere dal loro vissuto o far ricorso ad oggetti concreti per veicolare alcune conoscenze che poi verranno trasformate in competenze. Con un rotolino di scotch rosso, mentre mi aggiravo frettolosa fra i banchi per regalare un braccialetto che avrebbe dovuto cingere il polso destro, un bimbetto urlava a squarciagola. – Guarda che se continui a gridare come un’aquila lo scotch, anziché metterlo sul polso destro, lo sistemo sulla bocca per farti star zitto, eh? – gli avevo detto ridendo.
– Sì, dai mae’. Mettimi lo scotch in bocca. Dai , dai! – Aveva risposto contento, trasformando in un gioco quella che, inizialmente, doveva apparire come una minaccia. Alcuni bambini avevano prontamente tolto lo scotch dal polso procedendo ad un cambio di destinazione d’uso. Qualcuno urlava divertito: – Mettilo a me, mae’. – ed io non me l’ero fatta ripetere due volte, avevo sigillato giocosamente quelle piccole bocche che emettevano urletti di gioia.
Ero tornata alla cattedra decisa a non far durare quel gioco improvvisato per più di 5 minuti. Ma ad un tratto li avevo guardati da lontano e globalmente. Lucidità e forse anche un po’ di lungimiranza avevano preso il sopravvento. Se fosse entrata la bidella in quel momento cos’avrebbe pensato? O, peggio, il Dirigente Scolastico?
Presa da una frenesia, forse immotivata, ero passata tra i banchi a liberare con impazienza quelle boccucce. E, tra i versi di disapprovazione dei bambini, ai quali toglievo bruscamente un gioco estemporaneo, già mi figuravo il titolo dell’articolo a caratteri cubitali su tutti i quotidiani dell’indomani: Maestra imbavaglia gli alunni perché insofferente al loro vociare.
Presumibilmente l’insegnante dell’articolo ha letto stamattina, con smarrimento, quelle accuse che la riguardano, ignara che impedire l’utilizzo di uno smartphone in classe potesse celare uno sviluppo con un’eco così drammatica. O forse no. Forse è solo una stronza incapace che non adegua la metodologia in caso di alunni dislessici.
Non conosciamo l’insegnante, non conosciamo la circostanza e non conosciamo lo studente. Nessuno di noi era presente in quell’aula scolastica, ignoriamo cosa sia accaduto. Troppo pochi gli elementi per emettere una sentenza. E allora zitti, per favore!
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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