Il 26 Aprile del 1986, esattamente trent’anni fa, il mondo trattenne il fiato alla notizia di un gravissimo incidente alla centrale nucleare di V.I. Lenin, sita presso Černobyl’, nel nord dell’Ucraina.
Principalmente le cause del disastro furono due; una di tipo strutturale, e una di tipo umano.
A seguito dei bombardamenti Israeliani su un reattore nucleare di fabbricazione sovietica sito in Iraq (il reattore nucleare iracheno di Osiraq, già danneggiato dall’aviazione militare iraniana l’anno precedente, nel corso della guerra Iran-Iraq), l’agenzia per il nucleare sovietica decise di dare il via a una serie di test sui propri reattori per verificare se in caso di bombardamento e interruzione dell’energia elettrica, le turbine avrebbero fornito spinta inerziale necessaria per i 45 secondi occorrenti all’avvio del sistema di alimentazione di emergenza della centrale.
Nel test che si svolse a Černobyl’, il reattore numero 4 venne spento, isolato dalla turbina e progressivamente riacceso per fornire la potenza necessaria ad alimentare solo le pompe di raffreddamento.
Una cosa che gli ingegneri della centrale non sapevano era che il reattore nascondeva un segreto: a bassa potenza diventava particolarmente “instabile”.
Al riavvio del reattore, infatti, ci fu un aumento improvviso e violento della potenza che fece bollire la poca acqua contenuta all’interno, aumentò la pressione interna facendo esplodere la copertura di 500 tonnellate sita sopra il reattore stesso.
L’esposizione all’aria del materiale fissile innescò un incendio che proiettò in aria circa 700 tonnellate di materiale radioattivo che, insieme alle polveri e alla grafite in fiamme, contaminò tutto ciò che investiva.
Nell’immediato furono solo due le vittime dell’incendio; due tecnici che lavoravano nei locali ausiliari al di sotto del reattore.
Il bilancio delle vittime però salì tristemente nei mesi successivi.
Gli ingegneri che si trovavano a una certa distanza dal reattore in fiamme, che inizialmente si salvarono, morirono nei mesi successivi da avvelenamento da radiazioni, a causa delle polveri inalate.
Destino che toccò anche alle squadre dei vigili del fuoco giunte sul posto e a numerosi militari dell’Armata Rossa, giunti sul posto per limitare i danni.
Secondo le stime dell’OMS ci furono 65 vittime dovute all’esposizione diretta e oltre 5000 persone contaminate a seguito dell’esposizione; una stima chiaramente ottimistica, dal momento che l’associazione Greenpeace stima in oltre tre milioni le persone realmente esposte agli effetti delle radiazioni.
Inizialmente l’agenzia sovietica per il nucleare tenne segreta la notizia, anche perchè alcuni rapporti del KGB desecretati alla caduta del regime evidenziavano già problemi a questo tipo di reattori; evidenze ignorate nel tempo per evitare di danneggiare la posizione di predominio del nucleare sovietico nello scenario energetico degli anni ’80.
Solo il giorno 27 Aprile fu evacuata la vicina città dormitorio di Pryp’jat’ , dove risiedevano le migliaia di operai della centrale con le rispettive famiglie.
Fu grazie al tam-tam dei radio amatori che la notizia si diffuse fino a quando l’occidente, preoccupato per le notizie nient’affatto rassicuranti, non chiese esplicitamente al presidente Michail Gorbačëv, di dare una spiegazione degli avvenimenti.
Intanto la macchina dei soccorsi si mise in moto; nel reattore che ancora bruciava furono riversate tonnellate di listelle di Piombo e minerali di Boro, per soffocare l’incendio e contenere la dispersione radioattiva.
Infine, fu edificato un “sarcofago” di cemento armato per sigillare il reattore numero 4; fu l’unica soluzione possibile dal momento che non si poteva rimuovere il materiale all’interno a causa dell’impossibilità ad avvicinarsi al nocciolo.
Oggi il reattore e la zona circostante sono presidiati da militari e tecnici, intenti a realizzare un secondo sarcofago di contenimento definitivo per il reattore esploso e bonificare l’area circostante la centrale.
Una volta appresa la notizia in tutta Europa si corse ai ripari; si studiavano i venti per capire gli spostamenti dell’immensa nuvola radioattiva e tutti i Paesi misero in atto una macchina di prevenzione sulle ricadute radioattive – la nube arrivò fino ai paesi scandinavi e furono registrati “fallout” di materiale contaminato addirittura in Groenlandia e Canada – bloccando le raccolte di alimenti nelle zone in cui la nube depositò i propri veleni.
In Italia, dotata al periodo di una serie di centrali, vi fu una moratoria per il nucleare, che sfociò nel celebre referendum dell’8 e 9 novembre 1987, per effetto del quale si mise definitivamente al bando l’energia atomica, si chiusero le quattro centrali attive e si bloccarono i cantieri per le due ancora in costruzione.
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