C’erano una volta le brigate rosse. Non è una favola. E’ un punto di ripartenza dalla loro visione strategica. Erano passati tre anni dal sequestro Moro e le Brigate Rosse decidevano di diventare Partito comunista combattente. Con il nuovo nome si decise di sequestrare il generale Dozier. Mica roba da poco. Era il 17 dicembre del 1981 e a Verona tre uomini e una donna, travestiti da idraulici, entrarono nella casa dell’alto esponente della Nato James Lee Dozier, comandante della NATO nell’Europa meridionale. Al sequestro parteciparono Antonio Savasta, Pietro Vanzi, Cesare di Lenardo e Barbara Balzerani. Quello che, sinceramente, ancora ci sfugge, sono le pratiche medievali di ricerca delle varie “prigioni del popolo” e della disinvoltura con la quale questi “giovanotti” erano in grado di agire e colpire. Intorno alle 23.30 di quel 17 dicembre 1981 all’Ansa di Milano giunse una telefonata in cui un uomo affermò di parlare a nome delle Brigate Rosse dichiarando categoricamente: “Abbiamo rapito il generale di brigata Dozier, a Verona. Seguirà comunicato”. il comunicato arrivò e faceva riferimento agli obiettivi della guerra nei confronti del capitalismo e dell’imperialismo di cui la NATO era considerata, allora, il simbolo principale. La cosa assolutamente sconvolgente (che, soprattutto, ci sconvolge oggi) è la facilità con cui quattro “ragazzotti” riuscirono a prelevare dall’abitazione una pedina così importante. Da Verona lo trasportarono velocemente a Padova dove, chiaramente, la polizia e i carabinieri erano ancora all’oscuro di tutto. Gli americani non la presero bene. Il Presidente degli USA era un certo Ronald Reagan che espresse tutta la sua indignazione. Il Cowboy riuscì ad insultarci in maniera pesante chiedendosi come mai “quattro straccioni vagabondi potessero impunemente rapire nientemeno che un generale dell’esercito statunitense”. Probabilmente al Reagan nessuno aveva spiegato che gli straccioni erano gli stessi che nel 1978 avevano sequestrato e ucciso l’Onorevole Aldo Moro, persona che, a dire il vero, non era molto simpatica agli statunitensi e per la quale i loro servizi segreti nel 1978 si mossero sicuramente, ma non per salvargli la vita. Il sequestro Dozier venne vissuto dal governo italiano con la stessa poca determinazione e professionalità con la quale gestirono il sequestro Moro. Tra l’altro serpeggiava la paura che in certi ambienti il sequestro di un americano della NATO fosse quasi “tollerato”. In realtà le brigate rosse si trovavano in un momento terribile: molti militanti erano stati arrestati e l’operazione americana era una sorta di rilancio sul piano della credibilità anche all’interno dello stesso gruppo. Ecco che nacque l’idea del partito comunista combattente. Antonio Savasta, in seguito, spiegando le motivazioni che portarono all’obiettivo disse che era necessario “propagandare un programma rivoluzionario valido per tutti i settori di classe, dall’operaio a quello extra-legale”. In realtà la gestione del sequestro fu assolutamente fallimentare. Non ci furono comunicati e neppure interrogatori eclatanti. La risposta dello Stato fu una poderosa caccia alla ricerca del generale con le forze dell’ordine affiancate e, come giustamente osserva Casamassima nel suo libro nero delle brigate rosse, “probabilmente scavalcate dai servizi segreti italiani e statunitensi”. C’è però un particolare che mi ha sempre interessato e che la dice lunga su come funzionano certe cose. La moglie del generale, Judy, lasciata in casa legata ed imbavagliata, una volta liberatasi cosa fa? Avvisa naturalmente le autorità americane che, fin da subito, arrivano nell’abitazione. Gli italiani saranno avvisati solo dopo un’ora e mezzo quando i posti di blocco sono ormai inutili. Complotto? Gioco di sponda? Dozier era un generale da “bruciare?” Probabilmente e più semplicemente gli americani non si fidavano degli italiani e consideravano “straccioni” i brigatisti. Si è parlato molto di questo sequestro come di uno strano intreccio tra legami con il terrorismo internazionale, la poca professionalità della gestione da parte degli italiani del sequestro, la paura di una guerra fredda. C’è poi un aspetto altrettanto curioso legato ad un presunto contatto con i servizi segreti bulgari – che il 13 maggio 1981 avevano armato la mano di Alì Agca contro il papa – incuriositi del sequestro e disponibili a ottenere finanziamenti e armi. Eravamo nel 1981, praticamente un altro mondo. Che nessuno ha voglia di ricordare e che è rimasto nel ricordo di chi, in quegli anni era adolescente o poco più. Tutto ciò che è accaduto in quel periodo mi appartiene fortemente. Ho letto e riletto montagne di verbali, sentenze. Ho parlato con alcuni brigatisti in carcere. Ho provato a ricostruire il tutto. Non è facile. Mi sono convinto che, probabilmente, siamo un paese votato al melodramma e, in fondo, un sequestro “americano” in tutto lo scenario ci doveva stare, proprio per poter continuare a macinare dubbi e perplessità. In questo caso, grazie alle rilevazioni di uno considerato “balordo” tale Ruggero Volinia, il generale Dozier venne liberato il 28 gennaio 1982, a Padova da un comando dei NOCS che teneva sotto controllo da alcuni giorni il covo posto nella periferia della città. Quando i NOCS entrarono fulmineamente nell’appartamento, il generale si trovava all’interno di una tenda canadese piantata al centro di una stanza. Non fu sparato neppure un colpo. Il generale pare abbia esclamato “Wonderful italian police” e il buon Reagan, correggendo il tiro dichiarò: “Ho parlato col presidente Pertini esprimendogli l’apprezzamento dell’America per l’efficacia e dedizione all’opera delle autorità italiane nel localizzare i rapitori e salvare la vita del generale Dozier. Anche le autorità italiane hanno assolto il loro compito con onore”. In realtà Dozier fu liberato grazie alla “gola profonda” che raccontò il luogo dove il generale era tenuto nascosto. Le Br, dal canto loro, emanarono un laconico comunicato in cui si accennava ad una “ritirata strategica in presenza di una controffensiva dello Stato senza precedenti”. In realtà era il loro canto del cigno. Dopo qualche anno anche nelle carceri si sarebbe assistito alla stagione del dialogo con l’apertura dell’area omogenea di Rebibbia.
C’erano una volta le brigate rosse. Era, davvero, un mondo in bianco e nero. Con troppe domande che sono rimaste, forse per sempre, senza risposta.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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