Una delle sequenze televisive da cui più rimasi colpito, da ragazzo, fu quel breve filmato che documentava l’esecuzione del dittatore romeno Nicolae Ceausescu. Lui con l’indice puntato contro i giudici improvvisati, accanto alla moglie muta, lui che li avverte di non riconoscere il tribunale che lo aveva appena condannato alla pena capitale, in un ultimo e minaccioso sussulto da. Era il 1989, quel clima da Terrore francese e la sua giustizia sommaria mi facevano paura, per quanto comprensibili fossero, visti con gli occhi di un popolo stremato. Era la loro Liberazione, l’eliminazione fisica del regime era il loro Piazzale Loreto.Alcuni mesi dopo quei fatti, ricordo di aver visto un’inchiesta di Enzo Biagi su Ceausescu, realizzata interamente in Romania. Biagi intervistò il colonnello dell’elicottero che aveva portato per l’ultima volta il dittatore nel palazzo presidenziale, mentre infuriava la rivolta, poi scovò la fidanzata di uno dei figli di Ceausescu, noto per essere un incallito giocatore d’azzardo.Venne sentito anche uno dei giudici che decisero l’eliminazione del tiranno. Biagi fu quasi asettico, nella sua rappresentazione oggettiva dei fatti. Ma in quei mesi i media raccontavano ogni genere di aneddoto sullo sfarzo sfacciato che circondava la corte del re, mentre il popolo moriva di fame. Sentii dire che Ceausescu indossava i suoi abiti sartoriali una sola volta, poi li dismetteva: ogni giorno un vestito nuovo, confezionato apposta per lui. Sapevamo da sempre, noi italiani, che in Romania le cose stavano così?Girovagando su youtube, ultimamente uno dei miei sport prediletti, ho trovato un cimelio in bianco e nero, datato 1974, da cui sono rimasto molto impressionato: un reportage dalla Romania del tempo prodotto nientemeno che da da Carlo Ponti, curato dal giornalista Giancarlo Vigorelli, scomparso alcuni anni fa, e culminato in un’intervista a Nicolae Ceausescu.S’intitola “A carte scoperte con Ceausescu”. Ne sono rimasto impressionato per il racconto, pieno di un ottimismo stucchevole, sulla società romena di quei primi anni settanta, sui miracoli del dittatore e sulla sua illuminata guida. Presumo, ma non ne sono certo, che una cosa del genere sia andata in onda sulla Rai, dal momento che all’epoca non esistevano ancora televisioni commerciali, né tantomeno i canali a pagamento.Il giornalista spiega all’ascoltatore che la Romania è un caso a sé, nella massa indistinta dei paesi satellite dell’Unione sovietica. Sostiene che abbia mantenuto una sua autonomia, prova ne sarebbe il mantenimento dei rapporti diplomatici con Israele, caso unico tra i membri del Patto di Varsavia.
L’esaltazione del Capo ha toni persino irritanti. Il capo sa fare tutto: lavora sedici ore al giorno, legge libri, scrive poesie, vede la gente, va nei posti dove si lavora per chiedere a chi lavora cosa non funzioni. Non manca una parentesi per Elena, la moglie scienziata. La telecamera cattura il suo arrivo nella sede dell’istituto di ricerca in cui lavora, secondo il cronista distinguendosi per competenza e correttezza. Rispettando orari e regole come una qualunque altra dipendente, sottolinea ancora la voce fuori campo.
Viene intervistato il bibliotecario di una delle principali sale di lettura di Bucarest. Parla italiano e mostra le traduzioni di volumi di Sciascia, Moravia, Vittorini, la storia della Letteratura del De Sanctis. Qui chiunque può leggere ciò che vuole, precisa il giornalista. La famiglia reale, fa sapere il giornalista, è tutta protesa verso queste letture.
Vengono intervistati il ministro della Cultura Popescu e il segretario del Partito comunista Burtica. Il copione è sempre uguale. I due iniziano a parlare seduti alla loro scrivania, poi si alzano in piedi e completano il loro discorso. Vestono completi grigi, sembrano ingessati nei gesti e nelle parole. Popescu dice una cosa agghiacciante, col sorriso sulle labbra, su cui Vigorelli non interviene: riferisce che Ceausescu ha incontrato gli intellettuali di Bucarest per concordare la politica culturale del Paese, come se lo sviluppo culturale possa essere negoziato tra Stato e liberi pensatori.Poi viene il momento dell’intervista al leader. Lui seduto su un divano, Vigorelli in una poltrona di fronte. Strabuzzo gli occhi: Ceausescu sta leggendo, senza neppure la decenza di nascondere i fogli. Evidentemente le domande sono state concordate. La qual cosa riesce sempre a scandalizzarmi, per quanto mi sia capitato di vedere applicare questa pratica in prima persona, anche in contesti molto distanti dal rigido mondo del socialismo reale. Una volta, una collega di un giornale chiese di intervistare il presidente del Consorzio Costa Smeralda: il colloquio avvenne, ma per iscritto, con domande preventivamente comunicate all’intervistato, che ne corresse alcune e ne cancellò altre. Ceausescu legge una specie di libro dei sogni, un programma elettorale in cui ammette che l’industria romena è ancora in ritardo rispetto ai concorrenti, ma promette grande attenzione per lo sviluppo tecnico. Aggiunge che essere comunisti e nazionalisti non è una contraddizione: lui ne è la prova. Vigorelli chiude il programma con una postilla. Sì, dice, abbiamo parlato a carte scoperte con Ceausescu, ma in questi Paesi dell’est bisogna lasciare spazio al dubbio, perché non si sa mai se ci dicono tutta la verità. Tutto era stato confezionato su misura, come gli abiti sartoriali che il Capo indossava a fine carriera: inquadrature, rassicuranti musiche di sottofondo, domande. Mi sono chiesto se fosse del tutto fedele il racconto a colori di Biagi, datato 1989, oppure ci fosse anche qualche verità nell’esposizione in bianco e nero di Vigorelli, risalente a quindici anni prima.
Due estremi, in un battito di ciglia della storia.
Tempo fa ebbi una conversazione con una badante romena, una di quelle scappate dal suo Paese dopo la fine del comunismo. Aveva odiato profondamente Ceausescu, aveva esultato alla sua morte. Ma ora non era più tanto sicura che il dopo fosse meglio del prima. Non era più tanto sicura di stare meglio, dopo quella esecuzione. Lei della violenza del despota sapeva e nella rivoluzione aveva creduto, convinta che le avrebbe permesso una vita dignitosa. Ma adesso, reclusa nell’ennesima casa sconosciuta, a migliaia di chilometri di distanza dalla sua, non lo sapeva più.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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