Quello di cui sto per scrivere è l’unico caso mondiale di dirottamento aereo nell’aviazione civile che non abbia un colpevole. Non è morto nessuno, nessuno è finito sotto processo. È avvenuto 46 anni fa negli Stati Uniti, pochi mesi fa la sezione dell’Fbi di Seattle ha rispedito al quartiere generale del Federal Bureau di Washington un camion di carte, file, oggetti che non sono serviti a scoprire la verità, nonostante per tutto questo tempo le indagini non si siano mai interrotte, nonostante la giustizia ufficiale sia stata affiancata da centinaia di detective privati di giornalisti d’inchiesta, di testimoni. Caso chiuso, senza responsabili. Perché ne scrivo? Non c’è un perché. O forse sì, forse perché si può indagare a fondo una storia accettando fin dal principio che in fondo alla strada non ci saranno risposte sicure. Perché non solo in Italia capita di avere a che fare con gente come Igor il russo, di cui si dà per imminente la cattura salvo poi arrendersi alla sua inafferrabilità. La vita non è un libro giallo con la soluzione del rebus nell’ultimo capitolo, ma il giallo va letto comunque.
Il 24 novembre del 1971 io avevo sei mesi e me la facevo ancora nel pannolino. Nel pomeriggio di quel giorno, vigilia della Festa del Ringraziamento, un Boeing 727 della Northwest decolla da Portland, direzione Seattle, lungo la costa pacifica degli Stati Uniti. All’ultima fila di posti, in fondo all’aereo, siede un signore che indossa un abito scuro, mocassini leggeri e ha gli occhi nascosti da grandi lenti da sole con montatura nera. Li tiene sul naso anche quando è ormai buio pesto e non servirebbero. Il tizio ad un certo punto chiama una hostess e le mostra un foglietto scritto a mano. L’appunto avverte che dentro la valigetta che ha posato nel sedile accanto è contenuta una bomba, alcuni candelotti di dinamite che il passeggero potrebbe innescare collegando un solo filo. Raccomanda a Tina Mucklow, l’assistente di volo, di riferire riservatamente all’equipaggio la richiesta di riscatto: 200 mila dollari equattro paracadute, da portare a bordo all’atterraggio a Seattle. Il comandante del volo comunica ai passeggeri che, causa un problema tecnico ad un motore, l’evacuazione del Boeing sarebbe avvenuta secondo le procedure d’emergenza, senza fare cenno a quanto realmente stava avvenendo. A Seattle tutti i viaggiatori scendono e, quando sul bus la polizia fa l’appello, si scopre che dall’elenco dei presenti manca un certo Dean Cooper: il dirottatore è lui. Il giorno dopo, un quotidiano della West Coast dà notizia dei fatti riportando, per puro errore, il nome D.B. Cooper: da quel momento tutti lo chiameranno così.
A Seattle vengono caricati sul Boeing i 200 mila dollari – l’equivalente di 1,2 milioni di dollari odierni – e i quattro paracadute richiesti dall’uomo, che ha modo gentili e un piglio sicuro. Non è uno scavezzacollo disperato, sa quel che fa, per quanto il suo piano abbia un’altissima percentuale di creativa follia. Ordina da bere e offre il pasto all’equipaggio. L’aereo riparte alle 20 con direzione Città del Messico, secondo quanto ordinato da Cooper. Il dirottatore dispone che l’aereo voli ad una quota di tremila metri, con i flap inclinati per ridurre la velocità. È una marcia rischiosa, perché le ali si riempiono di ghiaccio e le condizioni di sicurezza non vengono rispettate: i piloti lo sanno e trattengono il fiato, sperando in una sorte benevola. Tina Mucklow continua a fare la spola tra la cabina di pilotaggio e il sedile di Cooper, trasmettendo i messaggi tra le parti. Dopo qualche minuto di volo, il dirottatore ordina alla hostess di chiudersi dentro la cabina di pilotaggio, poi chiede al comandante di aprire la scaletta posteriore del Boeing. Quando il pilota manifesta la sua perplessità sulla manovra, facendone presente la pericolosità, Cooper lo zittisce assicurandogli che questa non presenta nessun pericolo. Poi indossa il paracadute, scende qualche gradino della scaletta e si lascia cadere, staccandosi dall’aereo che viaggia a trecento chilometri all’ora. L’equipaggio capisce dal contraccolpo che l’uomo si è paracadutato, ma ne ha la certezza solo dopo l’atterraggio, a Reno, nel Nevada.
Inizia una imponente caccia all’uomo. C’è chi dice che Cooper non possa essere sopravvissuto al lancio, perché l’abbigliamento non gli avrebbe permesso di superare le rigide condizioni termiche a quell’altitudine. Oppure perché la vegetazione fitta nell’ipotetica area della caduta, con alberi ad alto fusto, presentava gravi pericoli. Tutto giusto, ma del cadavere e del paracadute di Cooper non si trova traccia per settimane e mai se se saprà nulla, accreditando l’ipotesi che l’uomo sia invece scampato al volo da tremila metri di quota. L’anno dopo, sempre negli Stati Uniti, la stessa impresa viene tentata da un tale Richard Mccoy, che dirottò un volo della United Airlines ma venne acciuffato dall’Fbi e arrestato, prima di morire in un conflitto a fuoco con gli agenti federali, nel 1974. Per qualche tempo si pensò che Mccoy potesse essere Cooper, ma l’ipotesi venne scartata perché priva di alcun riscontro.
Il caso di Db Cooper sparì gradualmente dalle cronache e venne dimenticato. Fino al febbraio del 1980, quando sulle sponde del lago Columbia venne trovato un sacco con un certo numero di banconote. La zona era a poche decine di chilometri dal punto in cui il paracadutista senza nome aveva presumibilmente lasciato l’aereo. Il numero di serie dei dollari confermò trattarsi di una piccola parte dei soldi del riscatto pagati a Cooper, ma anche questo sviluppo non consentì progressi determinanti nelle indagini. L’anno prima, il 1979, l’Fbi aveva messo gli occhi su un tale Robert Rackstraw, un ex militare finito nei guai per una piccola truffa. Rackstraw era stato in Vietnam nei Berretti verdi – le cui gesta, non sempre eroiche, vennero raccontate nel celebre film di John Wayne – ed era considerato un eroe di guerra. Sapeva pilotare aerei ed elicotteri, maneggiare esplosivi, paracadutarsi da alte quote, riusciva a cambiare identità usando raffinate tecniche di persuasione psicologica. Era un uomo colto e, in seguito, conseguì due lauree diventando professore universitario. Nell’estate del 1971, però, l’esercito americano lo espulse con disonore. Aveva mentito sul suo titolo di studio. Rackstraw aveva 27 anni e un bisogno vitale di denaro. Ma, soprattutto, voleva vendicarsi per il benservito subito, mostrando di cosa fosse capace. L’Fbi pose gli occhi su di lui in seguito ad alcune allusioni contenute in una intervista rilasciata ad una televisione americana, al tempo della sua accusa per frode, ma le indagini si persero subito in un vicolo cieco e non ebbero esito. Trent’anni dopo, Rackstraw calamitò l’interesse di Tom Colbert e Jim Forbes, due reporter indipendenti, molto reputati, attivi nel ramo del giornalismo d’inchiesta. Per loro, che non si fosse venuti a capo del mistero del dirottatore fantasma era una vera ossessione. Un cold case che andava risolto. Costituirono un team di 36 esperti per lavorare al caso, setacciando il campo in tutte le possibili direzioni. Obiettivo, costringere l’Fbi a prendere in esame il materiale raccolto. Nel 2015, i cinque anni di investigazione privata di Colbert e Forbes avevano prodotto una novantina di prove che rinnovavano i sospetti su Rackstraw, nel frattempo diventato responsabile di un piccolo rimessaggio nautico. Una colossale mole di lavoro che comprendeva anche l’intervista esclusiva ad una sorellastra di Rackstraw, registrata nel 2013, poco prima della morte della donna, gravemente ammalata. Tra le altre curiosità rivelate agli intervistatori, la presenza in famiglia di un paracadutista pluridecorato, marito di una sorella di mamma Rackstraw, il cui cognome era Cooper. Secondo i due reporter, era a lui che il dirottatore si era ispirato per darsi quello pseudonimo (secondo l’Fbi, invece, si trattava della citazione di un fumetto belga, che raccontava proprio le avventure di un paracadutista di nome Cooper). Vennero intervistati anche la hostess Tina Mucklow e il copilota William Rataczak, che mai avevano rilasciato dichiarazioni da quel giorno del novembre 1971. Venne scovata anche una studentessa, oggi ultrasessantenne, che proprio nei giorni precedenti il dirottamento ebbe un effimero flirt col sospettato. Per Colbert e Forbes, Rackstraw aveva vissuto sotto falso nome per mesi, nei pressi di Portland, studiando voli aerei e conformazione del territorio, usando poi il suo addestramento speciale per condurre l’operazione. E che fosse in grado di mettere a segno un piano simile, lo confermò lo stesso comandante della compagnia nella quale Rackstraw aveva servito la patria americana in Vietnam.
Colbert e Forbes viaggiano spediti nella loro direzione: Rackstraw è. DB Cooper. Ma sanno di non essere infallibili e nel team includono Tom Fuentes, ex vicedirettore Fbi, e Billy Jensen, altro giornalista investigativo americano. Fuentes e Jensen devono valutare con occhi neutrali il lavoro dei due reporter che, alla fine della loro ricerca, riescono a raggiungere fisicamente l’ormai settantenne Rackstraw. Forbes lo bracca, lo mette con le spalle al muro, ma non gli strappa ammissioni né vere risposte.
Tutto il lavoro dei due indagatori viene setacciato da Fuentes e Jensen, che in ultima analisi lo giudicano scrupoloso ma poco convincente nei suoi esiti. Poi i faldoni vengono portati alla sezione Fbi di Seattle. L’agente cui era stato affidato il caso – uno dei tanti, in questi 45 anni – gela Colbert e Forbes: non c’è nulla di veramente nuovo e sensazionale, rispetto a quanto già si sapeva. Soltanto il recupero del paracadute usato per il lancio e dei soldi del riscatto potrebbe riaprire il caso, che nel luglio del 2016 viene definitivamente archiviato. Morale? Le storie, per essere appassionanti e meritevoli di attenzione, non sempre devono avere una conclusione ortodossa, un colpevole e un movente. Il dirottatore fantasma del Boeing 727 rimarrà senza identità forse per sempre. Forse.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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