In questi giorni sto dando una piccola mano all’editing di un libro che uscirà tra breve e che parla di architettura e anche di urbanistica durante il Ventennio. Non dico di più perché un libro, sino a quando non è esposto nella vetrina del libraio, appartiene soltanto al suo autore e al suo editore, con tutte le informazioni e le riflessioni che contiene. Ma sono libero di manifestare una elementare riflessione che mi tormenta ogni volta che mi imbatto in questioni che riguardino “Il Fascismo di pietra”, come lo definisce Emilio Gentile nel suo bel saggio sull’estetica del potere: perché quella forma di totalitarismo, pervasivo e retorico, incolto e violento, razzista e classista, riuscì nell’edilizia privata a proporre un gusto dell’abitare assente nella più diffusa cultura contemporanea? Io sono irrimediabilmente marxiano (oltre che piuttosto marxista) e tendo quindi a dare una risposta economicista a ogni questione. E sono tentato di dire che nel deludente mercato neoliberista e a dittatura bancaria dove la finanza detta legge sull’economia, dove le nostre città sono assediate da ciclopiche periferie fatte di case vuote detenute dai proprietari alla stregua di titoli di investimento, come fossero Bot, non è il caso di pensare a un’estetica e a una gioia dell’abitare. Però penso anche che nel nostro animo sociale si sia persa una felicità condivisa del vivere sotto un tetto che neppure la brutalità statalista del Fascismo era riuscita a cancellare dalla formazione dei suoi architetti. Non era merito del Regime ma più probabilmente di tempi in cui nell’Occidente lo spostamento di grandi masse di sottoproletari e di contadini poveri verso la classe operaia e la piccola borghesia segnò anche il passaggio dalla precarietà abitativa a case vere e proprie. E il concetto di luce, aria, spazi armonici, l’inserimento dell’ “inutile” quando esteticamente apprezzabile, erano parte importante della struttura urbanistica e architettonica. Ora questo si è perso nell’epoca della casa che non è più, se non nei casi di abitazioni di grande pregio e grande costo, il frutto di una dialettica tra ideatore e committente, il quale dica cosa vuole e venga aiutato dall’architetto a dare una forma visibile ai suoi desideri e dall’impresario a inserirla nel perimetro delle sue possibilità economiche. Ormai si costruisce senza prevedere per chi o per che cosa. Per quali donne, uomini e bambini. Ricordate il palazzo popolare della “Giornata particolare” di Scola? Io l’ho visitata quella casa romana e seduto su quelle grandi scale che qualsiasi moderno condominio ora si sognerebbe, ho avuto uno straniamento e le ho viste piene di bambini che giocavano e di inquilini che negli spaziosi pianerottoli si incontravano e si salutavano scambiando quattro chiacchiere. Ma ora le nostre città vivono soffocate da anelli grigi di cemento fatti di case per fantasmi, dove è impossibile sognare. D’altro canto, quando ho posseduto dei Bot, non mi è mai capitato di soffermarmi su uno di questi titoli per dire fra me: “Che bello!”.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Cara Cora (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design