Caro Giulio, da quando sei morto è la prima volta che ti scrivo. Sarà anche l’ultima perché ho paura che tu mi risponda. Non perché tema i fantasmi ma per il dubbio che quella tua sorridente malinconia sulle cose del presente possa diventare, nel presente di adesso, una esplicita tristezza. E saperti decisamente triste per ciò che avviene mi scoraggerebbe in maniera insopportabile. Se fossi politicamente corretto, farei di te un profeta, come è mestiere tra molti di quelli che parlano dei grandi morti. A esempio i nostri grandi morti. Non c’è niente che Gramsci o Pigliaru non abbiano previsto di ciò che ci accade. Pigliaru con qualche vantaggio perché è morto più di trent’anni dopo Gramsci e quindi era più vicino al nostro presente. Figurati tu che sei morto si può dire l’altro giorno. Però secondo me questa scienza così divinatoria è una balla. Pensare che qualche anno fa c’erano in un seme visibile a pochi eletti i frutti maturati ora, mi farebbe sentire come Gulliver nel regno di Glubbdubdrib dove i negromanti gli permisero di parlare con alcuni grandi della storia, avendone cocenti delusioni. Tu, caro Giulio, rispetto a molti normali filosofi avevi il vantaggio dell’essere pure antropologo, cioè di conoscere certi meccanismi del comportamento, ma questo non ti è bastato a sapere, allora, ciò che sarebbe avvenuto adesso. E ne eri cosciente. Ricordi quando in una pizzeria di Porto Torres, sotto la Basilica, dopo la presentazione di un tuo libro, mi parlasti del “Ritorno al futuro” di Zemeckis, che avevi da poco rivisto? Dicesti che quella rappresentazione di un futuro incredibile se visto dal passato era geniale: “Capisci? Un uomo del 1955 si mette a ridere se gli dicono che il presidente degli Stati Uniti nel 1985 sarà Ronald Reagan”. E aggiungesti che il nostro compito è quello di studiare gli eventi che in trent’anni hanno portato l’elettorato americano non tanto a una scelta di destra, quanto a lasciarsi affascinare da una spettacolarizzazione della politica. Studiare bene il passato, molto bene, per avere un’idea seppure minima di dove stiamo andando a parare. Caspita, quanto avevi ragione. Anche se i politici-spettacolo di allora erano infinitamente meno pericolosi di quelli di adesso. Ora dunque ti scrivo per dirti che casualmente mi è capitato sott’occhio il titolo di un tuo articolo sulla Nuova Sardegna del novembre del 2008, poco dopo la vittoria di Barack Obama. Sai quante ne dici in quell’articolo! Persino che “il sogno americano si allarga a sogno dell’umanità”. Sprizzi gioia, ti scappa una retorica che non è nel tuo stile, ma ti capisco, fu un periodo di speranza. Scrivi che “chiunque ha anche una sola volta patito una discriminazione per il suo aspetto, la sua provenienza, il suo stato, la tinta del suo corpo, la perifericità, capisce ed è dei nostri oggi nel mondo”. Rivendichi il tuo ruolo di scienziato per giustificare il tuo ottimismo: “Non mi dicano i saggi che sto esagerando. Sento così anche perché da decenni sono pagato per studiare dell’uomo che cosa lo fa sempre uguale e sempre diverso”. Dici che “un uomo nuovo è stato scelto come gli uomini man mano nuovi che nei milioni di anni sono sorti nella sua Africa e poi si sono sparsi per il mondo”. Già, carissimo Giulio, e ora questa nave che vaga nel nostro mare carica di africani che come è normale nei milioni di anni si spargono per il mondo, quali uomini la respingono? Quelli sempre uguali o quelli sempre diversi? Caro Giulio, è proprio vero. Se un giorno un tale venuto dal futuro ti dice che un teatrante di mediocre levatura diventerà un pezzo grosso che deciderà sulle sorti del mondo, beh, non c’è niente da ridere.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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