Un detenuto rientrando dal permesso mi disse una cosa che mi rimase impressa per sempre: “Fuori, dopo dieci anni di carcere ho avuto paura. Paura vera. Non capivo i rumori, non sapevo più attraversare la strada e quando ho sentito un cane abbaiare mi sono quasi spaventato. Non ero abituato ad un mondo rotondo, fatto di molte cose. Il carcere è un grande parallelepipedo, un acquario tutto fatto di spigoli e silenzi”. Era vero. E’ vero. Il carcere è un disegno semplice. Non ammette fantasia. Deve essere obbligatoriamente severo e la severità in religione, in giurisprudenza, in storia, in fisica, in architettura è fatta di linee. Che quando curvano diventano infiniti angoli retti. Tutto, in un carcere, ha la forma del rettangolo o, al massimo, del quadrato. Le celle, i corridoi, i passeggi per le ore d’aria, le cucine, gli uffici. Anche le sbarre che una volta erano arrotondate hanno modificato lentamente la propria forma. Sono state “squadrate”. Un tempo, era la fine del 1800, ci fu una scelta che portò un disegno diverso dal solito: un panottico rotondo, a raggiera: dove la rotonda era al centro del carcere e serviva, essenzialmente per il controllo fatto da una sola guardia in grado di vedere tutti i raggi. Si chiamavano raggi, come quelli di una bicilettta. Furono costruite in questo modo San Sebastiano a Sassari e La Rotonda di Tempio. Poi si è ritornato al rettangolo e i lunghi corridoi diritti e silenziosi son divenute sezioni. Come quelle di un tribunale. Si è ritornati alla normalità dell’angolo retto. Si è ritornati a quel non rumore assurdo, incontenibile, dove ti penetra dentro il rumore delle chiavi. Un carcere non si disegna, un carcere è già disegnato e deve essere obbligatoriamente brutto. Non è contemplato un carcere a colori: è una piccola eresia. Poi, è chiaro, ci sono fughe in avanti che in carcere non sono mai molto amate. Piccole cose: un muro, un pezzo di cella, un pavimento. Colori forti, mai tenui. In carcere non esistono le tinte pastello. O è rosso o è nero. Se entrate in una cella di quelle serie, di quelle dove le perquisizioni non violentano la creatività, vi troverete dentro un mare di curve: le foto delle veline poco vestite che mostrano il meglio di sé. Curve che servono alla fantasia e all’anima. Eppure è da tempo che la Montessori ha spiegato di non insegnare ai bambini a scrivere utilizzando le aste: occorre disegnare le curve, ricercare l’armonia del cerchio perché ci avvicina alla natura. Noi siamo una generazione nata con le aste. Solo qualcuno ha cominciato a ribellarsi a questo modo di vedere le cose. Quel qualcuno è l’unico ad avere avuto una visione. Ho sempre amato le forme di Picasso, ho amato e amo alla follia Guernica: credo sia una capolavoro assoluto, di una bellezza infame. Ho amato Mirò: i suoi cerchi, i suoi colori, la sua immensa catalanità: quel giallo che è Spagna ma è Sardegna, quel rosso che è amore e passione. Ma Picasso e Mirò, per quanto visionari, non avrebbero mai potuto disegnare un carcere. Non sarebbero riusciti a donargli la bellezza della solidità. Ci voleva un altro. Ci voleva Antoni Gaudì. Quello del palazzo Guell, della casa Clavet, del parco Gell e, soprattutto, quello della Sagrada Familia. Quando l’ho vista, la Sagrada, ho subito pensato: Gaudì ha una grande idea della bellezza, confonde le aste con i cerchi. Meglio: le aste spariscono, le punte di un campanile fatto di troppi campanili finisce con qualcosa che è tondo: come il sole, la luna, il cerchio che produce una pietra quando cade in acqua. Gaudì il carcere lo avrebbe saputo disegnare e costruire. Perché c’è della follia nel disegno di Gaudì, nella sua architettura. Si è sempre ispirato a Dio, quel Dio che in natura non ha mai fatto nulla di perfettamente dritto: nulla. Neppure l’orizzonte che, per quanto infinito prima o poi è spezzato da un pezzo di terra che si accovaccia su quella linea retta. Quella terra che non sarà mai una linea interminabile e noiosa. Le montagne, i fiumi, i fiori, i frutti. Nulla disegnato da quello che possiamo, se vogliamo, definire Creatore è qualcosa di dritto. Non ci sono angoli acuti in natura. C’è sempre un’immensa e disarmonica armonia. E’ l’ossimoro della perfezione che si nasconde dietro la rotondità di sora terra, di frate sole e di sora acqua. Poi sono arrivati gli uomini a raddrizzare il corso dei fiumi, a disegnare strade e canali sempre dritti perché più veloci. Ecco, quegli uomini hanno disegnato un carcere in maniera sbagliata. Non era necessario essere veloci in un luogo dove, invece, servivano le curve. Perché chi lo abita deve andare con lentezza, ha bisogno di fermarsi, provare a ripartire. Quei corridoi lunghi e immensi sono l’esatta contrapposizione all’esperienza dei detenuti. figli delle curve. Il carcere perfetto poteva costruirlo solo l’architetto di Dio: Antoni Gaudì. Immaginatevelo un carcere con sezioni che camminano prima a destra e poi a sinistra, lucertole che osservano, guglie che, incredibilmente storte, provano ad arrivare verso il cielo, verso quel Dio che non ha scelto la linea retta come perfezione. In natura sono le rotondità a disegnare il mondo, quello che in carcere non c’è. Io me la immagino la cella di Gaudì, senza neppure un angolo, quasi assurda, ma bellissima, che si disperde tra le curve delle pareti e quelle delle veline. Con la possibilità di camminare come in un ottovolante, salire e scendere, correre e fermarsi e provare a sentire, da lontano, da quelle curve immense il latrato del cane. Provare a domandarsi, nel tripudio di curve e di colori, se un carcere può rappresentare un tempo che scorre lento, ma che scorre, un tempo, che rincorre gli attimi tra le curve della vita. Un detenuto aveva vissuto per anni nel carcere di Cagliari, a Buoncammino. Venne trasferito a Isili, in colonia. Non era inizialmente felice ma dopo qualche giorno, parlando con un educatrice disse: “Non sembra neppure un carcere questo. Ci sono le rondini. Ero anni che non vedevo le rondini. E ci sono le lucertole che mi ricordano la mia infanzia.” Sono ritornato subito ai lucertoloni. Quelli del parco Gell, a Barcellona. Io, ad Antoni Gaudì, un carcere glielo farei costruire.
Intervento al convegno Fuori Luogo. Ripensare gli spazi di vita dell’istituto penitenziario minorile di Quartucciu insieme ai giovani detenuti – un incontro a più voci e suoni. avvenuto a Cagliari, facoltà di Architettura, giovedi 24 novembre 2016
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Cara Cora (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design