Faccio una piccola pausa sopra un angolo d’orizzonte marino da cui forse il barone Jacques Adelswärd-Fersen provava a rendere fecondi i pensieri filtrandoli attraverso una pipa cinese carica d’oppio.
La quiete del mattino è interrotta alle sei. Il traffico nella darsena di Marina Grande comincia ogni giorno col primo aliscafo: entra sparato e provoca una baraonda di beccheggi e rollii fra yacht e barchini. A seguire traghetti, rimorchiatori, barche da pesca, gommoni, piccoli gozzi arredati con tende a righe e prendisole agitano la superficie del mare e la pace tornerà ormai a notte fonda. Al distributore alcuni motoscafi sono in attesa che l’uomo in maglia gialla e paglietta in testa apra, mentre il flusso di vacanzieri in entrata e in uscita dal porto ha reso di nuovo ogni manovra un’impresa complessa.
L’armatore seduto al bar in camicia rosa questa mattina ha l’aria serena. Ti richiamo per portare la barca ad Alassio, dice con una stretta di mano e un buon sorriso. Anche uno come lui fa fatica a trovare posto in banchina nella Capri di ferragosto. Prenoti in aprile e una volta arrivato contribuisci al pil clandestino di qualcuno per essere messo comunque in lista d’attesa.
Un grande orologio tempestato di gioielli spicca dentro un cartellone pubblicitario sopra i trafficati marciapiedi davanti ai moli. L’isola è un gioiello venerato e preso d’assalto, piccolo inferno dentro il sole d’agosto. Dagli ingressi di tutti i negozi spuntano filari di persone in attesa di consumazione, hanno le bocche tappate da bende e la pazienza semi sufficiente per sopravvivere all’afa e al torpore. C’è una coda per qualunque cosa: il pane, il bar, l’autobus, il taxi, l’aliscafo, la gita in barca, le sigarette, i pomodori, la mozzarella. Una sorta di indomita concitazione collettiva sembra aver spinto i reduci dalla stagione del confino a ritrovarsi dentro un’isola per una nuova ristrettezza. A tratti una mascherina, come un petalo azzurro, si stacca dal corpo che l’ha respirata per poggiarsi lieve sul terreno, o in acqua sul bordo di scogli che furono un tempo selvatico perimetro, e comincia a giacere per sempre.
Ho un giorno libero prima di andar via e se questa è vacanza io me ne andrò in cerca di capre, su per la roccia grezza.
Tutto ciò che occorre è un motorino. Purtroppo si può passare e ripassare per tutti e quattro i rent a scooter dell’isola, chiedere e richiedere, aspettare e pregare, ma ciò non cambierà il verdetto al 18 di agosto: A me dispiace mandarvi a piedi, signorì, ma qua di scooter ‘un ce ne stann’ propio.
Non restano che le gambe e svariati gradi sopra i trenta. Il che significa caldo.
Ma prima di cominciare la gita a piedi c’è da sbrigare un paio di incombenze per il viaggio di domani. Il tabaccaio non può stampare la carta d’imbarco e assicura: nessuno a Marina Grande lo fa. Che bello. E a Capri centro? Può darsi, ma per scoprirlo bisogna andarci. Bene, per salire a Capri si prende l’autobus o la funicolare, ma visto che mi trovo al porto sarà opportuno acquistare il biglietto dell’aliscafo.
Al molo la biglietteria è presa d’assalto. Con rassegnazione mi appresto a diventare l’ultima di una folta coda. Chiedo: è questa la fila per la biglietteria aliscafo? Si, risponde un tizio davanti a me. No, dice quello accanto. Si o no? Questa è la fila per la funicolare dice il secondo. No, guardi che questa è la fila per i traghetti, ribatte il primo con certa arroganza. Per scoprire chi ha ragione devo lasciare la coda che intanto si è allungata alle mie spalle. Svoltato l’angolo c’è uno sportello aperto e solitario e dietro il vetro una signora sulla sessantina in rossetto e corti capelli scuri, in alto il cartello Aliscafo. Ha solo due clienti che hanno appena terminato di pagare. Mi guardo intorno circospetta: possibile che nessun altro si sia accorto di lei? Scusi, posso comprare un biglietto per l’aliscafo di domani? Ma certo! risponde quella tutta sorridente e in un attimo mi porge un biglietto per il molo Beverello. Che bellezza! E senta un po’, per andare in paese posso prendere l’autobus? Le conviene la funicolare signorì, è più veloce. Sgrano gli occhi: oh grazie ma non si immagina che coda là dietro! La donna però si apre in un nuovo sorriso: Glielo faccio io il biglietto, ecco a lei, sono due euro. Pazzesco, c’è un angelo allo sportello. Ma già che ci sono le chiedo un’ultima cosa: sa per caso dove posso stampare un documento? qui mi dicono che non si trova nessuno che possa farlo. Ed ecco il miracolo finale: Signorì me lo mandi a me che glielo stampo io. Due minuti ed ecco, anche la carta d’imbarco è fra le mie mani. Vorrei abbracciarla mentre mi soffia un bacio dal palmo della mano e poi mi fa ciao. Davanti alla fila sempre più accalcata i due tizi non hanno smesso di discutere sul fatto che la coda sia per la funicolare o per i traghetti.
Dal belvedere su in piazzetta la gente scatta raffiche di selfie con o senza bavaglio, risucchia drink attraverso cannucce, mastica pizzette e salatini trasportati da camerieri pronti alla rapina, indossa diamanti ed infradito. All’edicola domando alla madonna addolorata incastonata fra rotocalchi e settimane enigmistiche la via per Villa Jovis. A piedi? Sta lontana signorì, la signora ha l’aria dubbiosa, Sono cinquanta minuti di cammino e oggi fa caldo!
Ogni assembramento termina dietro il viottolo.
Finalmente due capre le ho viste. La prima brucava l’erba fra le rovine di villa Jovis, una delle dodici abitazioni a picco sul mare che l’imperatore Tiberio pare abbia fatto costruire sull’isola duemila anni or sono. Qui ha vissuto gli ultimi undici anni della sua vita e da queste folgoranti altezze, secondo un’immagine di crudeltà lasciataci da Svetonio e ancora tutta da dimostrare, precipitava certe vittime predestinate, schiavi o amanti, lasciando che si schiantassero sulla scogliera. L’altra capra, bassa, pelosa, scura e con gli occhi vitrei, pascolava dalle parti dell’antico faro dove un cedimento dei parapetti ha reso vietata la visita ai turisti. No, no non si può andare signorì, mi dice il custode sfoggiando una voce baritonale davanti alla clientela della biglietteria; mostra le spalle a tutti e solo io posso vederne la faccia che adesso strizza in un concentrato di smorfie con unico significato: attenda un attimino signorì, mò vanno via tutti e la faccio andare.
Come le capre mi arrampico sulle pietre e sui resti di gradini smangiati dai secoli, fin sul pezzetto di mattone rimasto a sfidare l’altezza. Pare che la fiamma accesa da allora ogni notte per milleseicento anni potesse uguagliare il leggendario faro di Alessandria. Nell’ovattato vento da sud l’aria spugnosa nasconde parte dei profili peninsulari: Positano, Sorrento, Napoli, Procida, Ischia si mischiano al blu dell’orizzonte. In piedi sulla cima del faro il vento s’inasprisce come monito all’imprudenza e provoca vertigine.
Saluto il custode e lasciato Tiberio seguo una deviazione verso un’altra delle terrazze del sogno.
A Villa Lysis, realizzata per conto del barone Fersen agli inizi del Novecento, si sentono solo cicale.
Ho trovato un luogo geniale per rileggere il brano contenuto in Anatomia dell’irrequietezza che Bruce Chatwin dedica all’isola di Capri e alla vita di alcuni eccentrici che fecero costruire le proprie ville sui dirupi, emulando Tiberio.
Con la testa appoggiata a una colonna e le dita dei piedi dirette sul golfo di Napoli sbocconcello una pizzetta e ascolto il fragore che dalla cassa armonica di un piccolo insetto e di migliaia di suoi simili, si propaga nell’ambiente circostante. La macchia verde di pini e lecci brilla appesa sopra il vuoto azzurro del mare arato, un centinaio di metri più sotto, dalle scie bianche di yacht e barchette con turista.
La mente libera per la distesa marina si fa attraversare da pensieri senza posa. Arriva il conte Jack che secondo Chatwin è il nome con cui tutti conoscevano Fersen. Affacciato da questa terrazza rocciosa, al mattino o a sera, con l’animo inquieto o pacificato nell’oppio, è perduto in un verso d’amore. La sera ha ospiti divertenti per i quali organizza feste esotiche e coi quali poi finisce per litigare, conversa di letteratura e poesia, sogna il luogo perfetto dove comporre lirismi, ma nonostante le terrazze dalle quali volare, è pigro e indolente e chissà se in quella stanza destinata al ricovero dei sogni e delle speranze del pian terreno riuscì a morire, ugualmente pieno dell’azzurro che io ho adesso negli occhi. Come nel migliore dei racconti accadde in una notte tempestosa del novembre del 1923, con cinque grammi di troppo e l’amato Nino a vegliare. Che l’avesse voluto lui o il destino conta ormai poco. Le cicale non se lo domandano.
Esco dal leggiadro giardino dei sogni e ripenso a un lontano parente del barone, quel leggendario Fersen, conte svedese e folle innamorato della decapitata regina di Francia. Stanotte anch’io ho sognato un amore. Colpa o fortuna delle catastrofi che si abbattono certe volte sulle vite degli esseri umani procurandogli inattese rivoluzioni. E’ una sensazione che galleggia nel giorno.
Ridiscendo dal monte. È tutta campagna a terrazze con scorci di mare profondi. Cammino lungo corridoi piastrellati, confinati da muretti intonacati oltre i quali spuntano chiome di giardini e si intravedono orti, vitigni carichi di grappoli quasi maturi, alberi di fichi e fichi d’india, carrubi e bouganville, pini d’aleppo, alberi da frutta, piccoli filari di pomodori rosso sole, ortensie e colonne con capitelli. Le case sono bianche e di forme morbide, archi ed archetti, finestrelle e giravolte di ferro battuto sulle ringhiere. Quasi ogni casa sembra adatta ad accogliere corpi in vacanza, gente che abbisogna di viste larghe e silenzi, sedie da giardino, aperitivi e dondoli sotto ai pergolati. I pergolati! Altro elemento che di continuo s’immischia nell’orizzonte. Potremmo essere in Grecia, a Kastellorizo, ma qui la visuale è più alta e dilatata su un golfo lucente. Sorrento sta ormai alle mie spalle, mentre appare appena, soffocata dall’umido vapore di un giorno graziato da grosse nuvolaglie arroccate sulle sponde del monte, l’isola di Ischia, parte però di altre storie.
Cammino. Ho lasciato il conte Jack intorpidito sul parapetto, dopo aver approfittato dei suoi angoli di immaginazione, delle piastrelle di lusso, delle stanze adibite al sonno e di quelle pensate per la depravazione dei sensi, cammino nel torrido del pomeriggio che solo a tratti il cielo perdona mentre la monotonia dei muri è spezzata da cancelli dietro cui si estendono una villa, una terrazza, una qualche forma di vita intima e sognata. Ogni casa un sogno disperato di Fersen, un desiderio. Ogni cancello un nome di villa. Da dove verranno questi nomi di donna? Saranno donne realmente esistite, amori indimenticati o ricche proprietarie terriere? Sul culmine dei colonnati all’ingresso dei cortili, sculture a forma di pigna mi ricordano Sanremo, ma anche i cortili di Ansedonia e dell’Argentario. Anche qui ha trionfato il pirata Barbarossa e vi è un castello che egli ha disfatto e conquistato e che quattrocento anni più tardi, quell’Axel Munthe, medico svedese e splendido autore de La storia di San Michele, ha trasformato nel regno protetto degli uccelli e delle loro migrazioni. Cammino e mi pare di intuire la malinconia dell’inverno, la solitudine di chi resta dopo, la desolazione di un invalicabile frontiera, l’eremo interiore, il caldo dei muretti, il frinire dei boschi. E vorrei essere presente ad ogni stagione.
Uno stretto uomo in maglietta blu è fermo sul ciglio del viottolo, due gatti sono interessati alle sue azioni. Ha delle buste in mano da cui tira fuori del cibo. Passo accanto alla piccola scena domestica, un odore di corpo umano accaldato m’invade, poco dopo è l’uomo a sorpassarmi, corricchia sbatacchiando la suola di un paio di infradito lungo il viottolo, ancora quell’odore che i due gatti a breve distanza stanno inseguendo desiderosi.
Il numero di persone lungo il viottolo aumenta. Supero un bambino e sua madre ma l’istante dopo mi rapisce il loro discorso, rallento: Quindi è così che credi succeda? Cioè che non ti ricordi nulla, perché le situazioni cambiano, cambia come sei vestito, magari anche il colore dei capelli e cambiano i posti, ma per il resto sei sempre tu? E’ così mamma? La madre annuisce, pronuncia uno strano sì, non troppo convinto, quasi distratto, ma il bambino niente affatto scoraggiato prosegue: Quindi eravamo così, ci siamo svegliati ed era un’altra vita, ma non potevamo saperlo, non ricordiamo nulla. Secondo te è così? Il bambino che sta facendo questo discorso molto seriamente chiedendo conferma a sua madre a un paio di metri da me mentre tutti procediamo verso Capri centro, non avrà più di nove anni. È cicciottello, napoletano d’accento. A volte, dice ancora, la notte non dormo, ci penso e mi dico: dev’essere così che succede, come nei sogni, che ti svegli e non ti ricordi più nulla, ma forse sei già alla tua ennesima vita, magari prima eri un microbo. La madre accenna ancora a dei piccoli sì: Quindi è per questo che non dormi la notte? chiede al bambino riportando il discorso su un piano diverso, profano e fatto di regole dove lei come madre riacquista dominio. Eppure a me pare di sentire la sua sorpresa nel ritrovarsi accanto un figlio onirico, non era preparata, forse è intimidita, vorrebbe dire qualcosa di utile ma non sa cosa, in fondo niente di ciò che sarebbe in grado di dire potrebbe aggiungere qualcosa a ciò che suo figlio ha già immaginato. Come sarebbe bello se fosse così, vero mamma? Questo bambino sta desiderando la reincarnazione dell’anima e sua madre non può che raccomandargli che almeno la notte provi a dormire invece di pensare troppo. La cosa buffa è che capto questo discorso e sono incerta se accelerare o rallentare perché nel frattempo davanti a me c’è un altro gruppetto interessante formato da un bambino, una bambina e un adulto e, colpo di scena, loro stanno parlando di alieni. Gli alieni! Non sono sicura che esistano – dice a due metri da me la bambina alta poco più di un centinaio di centimetri compreso il cappello di paglia a tesa larga che indossa elegante come un’adulta – Ma se esistono sono sicura che sono bravi! Anche il bimbo è d’accordo. Non vedo perché dovrebbero farci del male, dice al padre il quale tenendolo per mano si mostra a sua volta d’accordo con la tesi. Ecco, davanti e dietro di me piccoli discorsi provenienti dagli argini del sogno, alieni, reincarnati, scoccati come scintille in testa a fanciulli in villeggiatura. Questa vacanza è uno spazio libero della mente entro cui possono prendere posto pensieri fecondi che trovano il tempo per dilatarsi, intensificare la dose, per poi accovacciarsi in un nido intimo e familiare, impelagato nell’orizzonte marino, nel cicalare della montagna, dolce nella notte fresca. Siamo lontani dal luogo ristretto, imbacuccato ed ansiogeno che circola a valle. Vacanza è all’opposto del tutto esaurito.
Il cameriere la sera ha diviso la pizza con me. Chissà perché la sua presenza fra i tavolini quasi vuoti mi conforta vagamente. L’ingresso ad Anacapri bisogna guadagnarselo e i settecentosettantasette scalini fenici – comunque di origine greca – sono senz’altro un motivo sufficiente per affacciarsi su in paese e avere sete. Una birra la faccio fuori in breve, ma una pizza intera proprio non mi va. Si vede però che le cose in questo villaggetto affacciato sul versante opposto dell’isola funzionano diversamente, persino meglio. E del resto nutro solo una buona predisposizione verso un posto che, pur non avendo rinunciato del tutto alla bottega del lusso e alla firma d’artista, dà il suo benvenuto con una mattonella incastrata all’ingresso del paese in cui è scritto Cinquecentenario Anacapri Autonoma 1496-1996. Anche se quel prefisso sta per “sopra” niente può darmi l’idea di qualcosa di più antitetico a Capri che il suono anacapri. Anacapri è il privativo, l’inversione, la negazione, l’orgoglio di essere altro. Su queste terrazze, sotto le pendici del Monte Solaro, Axel Munthe venne a costruire sul finire del diciannovesimo secolo la sua villa di San Michele e chissà cosa penserebbe della bigliettaia un po’ antipatica che oggi stacca cartoncini all’ingresso di casa sua e sembra priva di qualunque empatia a dispetto della mia emozione. Lo conquistano nel 1885 per primi il vino rosso del corallaro e le labbra color corallo di sua figlia e in un batter di ciglia è rapito da un mondo indigeno fatto di nomi e soprannomi, di buon vicinato, di vita frugale. Ma San Michele è il luogo primario e ultimo da cui tutto comincia e dove tutto finisce, un’unità di misura con cui valutare il resto del creato ed il luogo da cui affacciare i suoi sogni ed esplorare l’esoterica dimensione dell’umano. Dentro ed intorno alla casa museo si ritrova qualcosa di quel che finì nel fondo di un animo inquieto e indagatore: il teschio di un giovane uomo, la colite delle dame per bene, l’amore per i cani, gli uccelli, il babbuino, la mangusta, la testa di Medusa che un giorno lo chiamò dagli abissi marini per essere issata sopra un altare oggi lasciato ai tarli, la Sfinge egizia impostora o veritiera guardiana di questo giardino intricato. Poi sul finale di vita, quando il patto con l’angelo della morte gli avrà portato via anche l’occhio, seguendo il consiglio dell’amico Henry James, comincerà a comporre la storia definitiva di una vita raccontando della frivolezza e della tragedia, della guerra, delle epidemie del genere umano e dell’amore che ha reso l’isola la sua indiscussa padrona.
Il cameriere ha messo mezza margherita nel piatto. E l’altra la mangi tu? chiedo. Mi risponde sollevando il mento e rilasciando in ambiente un sorriso. L’altra metà sta dietro il bancone. Offre lui.
E’ stata una giornata intensa, senza scooter e tutta gambe. L’acido lattico scorrazza per le vie vascolari. Per tornare giù in barca e trascorrere l’ultima notte isolana non ci sono più mezzi se non quelli privati. Una corsa su un taxi con un tettuccio inventato di tela a righe bianche e azzurre, marchio popolano che ormai fa cool, mi trasporta leggera nella notte luminescente verso la vallata marina.
C’è Munthe accanto nell’aria fresca che parla. “Un uomo non deve far altro che sedere tranquillamente su una sedia e guardare verso il passato col proprio occhio cieco. Molto meglio ancora se si sdraia sull’erba senza pensare affatto, ma restando solamente in ascolto. A poco a poco il lontano rombo del mondo si spegne, le foreste e i prati cominciano a cantare con pure voci d’uccelli, buoni animali si avvicinano per raccontare le loro gioie e i loro dolori con suoni e parole che egli potrà capire, e quando tutto sarà in silenzio, anche le cose inanimate che lo circondano cominceranno a sussurrare nel loro sonno”.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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