Oggi la macchina del tempo fa un giro fuori dal calendario e ci porta al 25 febbraio del 2009. Federico ha 8 anni e vive una situazione difficile. Il quadro familiare è devastato e la madre ha più volte denunciato il padre per atteggiamenti violenti. Federico è affidato ai Servizi sociali che, in una situazione protetta, dovrebbero gestire le relazioni di questa famiglia applicando sentenze, protocolli, regolamenti. Nello specifico, i Servizi sociali devono gestire gli incontri tra il bambino e suo padre. E quella mattina, nonostante le paure di Federico e le proteste insistenti della madre, il bambino sta per incontrare suo padre. Il personale degli uffici, malgrado sia una situazione protetta, si assenta per qualche minuto e lascia padre e figlio da soli. Durante quell’incontro le paure manifestate più volte dalla mamma del bambino prendono forma e si materializzano nella pistola e nel coltello che il padre ha portato con sé. Federico si difende come può, prima di morire. Dopo aver ucciso il bambino, l’uomo si suicida.
Non ricordavo questa storia, forse non l’avevo mai sentita prima di ieri mattina. Ho trovato alcune ricostruzioni utili, in particolare una a firma di Luisa Betti sulla rubrica del Corriere “La ventisettesima ora” e un’altra di Doriana Goraci su AgoraVox.
La vicenda è terrificante, la morte del bambino è terrificante, ma trovo che il seguito non sia da meno.
La madre, alla ricerca di un barlume di giustizia, fa causa contro il personale che ha lasciato solo suo figlio. L’accusa è di non averlo protetto da quell’uomo, nonostante il protocollo lo prevedesse e nonostante gli allarmi da lei stessa lanciati più volte, allarmi per cui si era sentita dare della visionaria.
I tre operatori accusati vengono assolti in Primo grado, uno su tre è condannato in Appello. Poi la Cassazione assolve tutti.
La madre di Federico è stata condannata a pagare buona parte delle spese processuali.
Io non so.
Non so nulla di procedure, di protezione, di protocolli, di affidamento ai servizi, di sentenze che oscillano tra madri, padri e figli, cercando di tutelare tutti.
Però ho la sensazione che ognuno di noi stia rapidamente soccombendo sotto una mostruosa massa di regole mal utilizzate. Come se le Istituzioni (quindi in un certo senso noi tutti), a corto di strumenti per comprendere fenomeni sempre più interconnessi e veloci, producessero regole per proteggere sè stesse dall’incertezza, dal rischio, lasciando le persone a vederesela da sè.
Guardando questa che mi sembra essere una deriva (della tecnica e del pensiero), ho la sensazione che non esista luogo pubblico in cui l’idea di speranza, l’idea di bellezza, che pure mi ostino a considerare cose di cui abbiamo terribilmente bisogno per vivere, possano avere una qualche cittadinanza. Lo stesso forse può dirsi per l’idea di vita, così spaventosa nel suo non voler sottostare ai protocolli.
In questa vicenda che mi sono permesso di ricordare, l’unica traccia di poesia l’ho trovata nelle parole della madre, che anche dopo la morte del bambino ha continuato a lottare per dare un senso a tutto questo, e in una pagina da lei curata, “Federico nel cuore”, dedicata alla lotta contro le violenze sui bambini, chiude un ricordo di suo figlio con questa dedica:
“A mio figlio che si chiamava Shady Federico Barakat, un nome che significa il canto dell’usignolo”
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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