Cantammira aveva imparato prima a cantare e dopo a parlare. A undici anni aveva la barba e un paio di coglioni che al mare si vergognava perché uscivano dal costume. Gli crescevano i peli sul dorso delle mani e aveva la forma di un uomo fatto, un po’ sgraziato, magari, ma uomo da sopra a sotto. Parlava poco e con la voce rauca e cattiva di un orco. Quando cantava, però, gli veniva fuori un trillo da castrato. Ed era un guaio, perché cantava da dio e il canto era la vita sua. Il babbo era barbiere e baritono nel coro Canepa e al Verdi una volta che c’erano i Pagliacci all’improvviso si ammalò l’amante Silvio che mancava un’ora ad aprire il sipario. Sostituti fissi non ce n’erano e chiesero al cantante che la stessa serata faceva Alfio nella Cavalleria Rusticana -Sarei lieto di aiutarvi, ma non conosco la parte di Silvio. Allora il direttore d’orchestra Graziani, che era pure il direttore artistico dell’Ente Concerti, chiese al babbo di Cantammira -E tu la parte la conosci? Lui inghiottì la saliva e gli disse di sì. Il direttore artistico era uno che decideva alla minnafuttu e vada come deve andare. Ordinò al direttore del coro di sostituire con uno qualsiasi il babbo di Cantammira o di arrangiarsi senza. E poi si mise a gambe larghe davanti al sostituto -Io non ti posso neppure fare una prova perché il palcoscenico è occupato dalla Cavalleria e poi tanto fra mezz’ora cominciamo. Tu entri quando ti dà uno spintone il direttore di scena e guardi sempre me, non guardare altri. Cerca di fare bene altrimenti prima ti ammazzo e poi ti piscio addosso. Era una particina ma lui si sentiva come se fosse stato Falstaff nel Falstaff. Al duetto con Nedda nel primo atto quando arrivò a “… quel bacio tuo perché me l’hai dato fra spasmi ardenti di voluttà?”, il soprano lo incoraggiò con un’occhiata -Bravo, continua così E alla fine del duetto, dopo il “sì, ti guardo e ti bacio. T’amo, t’amo”, il temuto loggionista Massenziu, che decretava carriere con un fischio o un applauso, zittì l’orchestra con un poderoso -Bravo! Era un ordine. Alla fine dell’opera infatti il loggione applaudì più lui di Canio, Tonio e Nedda messi insieme e il direttore artistico gli disse -Peccato che sei vecchio per cominciare a studiare canto da solista ché di stoffa già ne avresti. E quindi con questo figlioletto con la faccia di Mangiafuoco e la voce della Fatina che voleva soltanto cantare, il poveruomo non sapeva come fare. Allora lo portò dal professore di canto del Conservatorio, che con lui era sempre molto gentile, e gli disse sospingendo il ragazzino che teneva la testa bassa. -Maestro, lo può ascoltare? E’ mio figlio. -Certo. E che cosa mi vuoi cantare, carino? Cioè, “carino” appariva proprio come una presa per il culo ma Cantammira sollevò la testa, gli piantò gli occhi negli occhi e rispose con il suo vocione sgraziato -“Ecco, ridente in cielo”, dal Barbiere. -Caspita, difficilotta! Sei sicuro? E poi quella è roba da tenore leggero e il tuo timbro… -Quella voglio cantare. -E allora canta… carino Il professore con un sorriso accennò al pianoforte l’introduzione alla cavatina del Conte di Almaviva e al punto fece cenno con la testa a Cantammira. -Ecco ridente in cielo, spunta la bella aurora… Il professore sollevò stupito le mani dalla tastiera -E… questa voce? -E’ la mia. -Ma no che non è la tua, quando parli… -Ma quando canto mi viene fuori così. Il barbiere intervenne preoccupato -E’ grave, professore? -No succede alle volte che il registro di canto sia indipendente da… ma facciamolo continuare. Rifece al piano l’introduzione, fece cenno a Cantammira di riprendere da capo e quando il ragazzo concluse con tutte le acrobatiche variazioni sul “soave momento che eguale non ha”, il maestro stette a lungo in silenzio. Poi mormorò come riflettendo, parlando più a se stesso che al barbiere -E’ perfetto, il ragazzo è perfetto. Sa usare la sua voce come un grande cantante, ma… -Ma… – chiese ansioso il barbiere. Il maestro si riscosse dai suoi pensieri. -Il problema è proprio la voce, il timbro. Sarebbe da tenore ma non è. Non è da sopranista, da castrato, insomma. E neppure da falsettista, è molto più, molto meglio di un falsettista. Non è certo cantante da repertorio di operine del Seicento. Cantammira stava a sentire a testa bassa ma quando quello parlò di operine la sollevò -Io so cantare tutto! Il maestro lo fissò -Anche da tenore lirico? -Cos’è il tenore lirico? -La sai “Di quella pira”? -Sì che la so. Gli fece cantare quella e altre. Per un’ora, tra continue interruzioni a metà aria per passare da un ruolo all’altro, fu Otello e Mario Cavaradossi, il Duca di Mantova e Nemorino. E tutto conosceva, tutto cantava alla perfezione. Quando gli chiese “Firenze è come un albero fiorito” da Gianni Schicchi, Cantammira mostrò un po’ di imbarazzo -La parte di Rinuccio ancora non la so bene a memoria. Ce l’ha lo spartito per aiutarmi? -Perché, tu leggi la musica? -Sì che la leggo. Alla fine il maestro era più sudato del ragazzo. E spiegò -Suo figlio è un fenomeno della natura. E’ un tenore, indubbiamente un tenore. Ma ha una voce da soprano pur avendo un registro perfetto da tenore. E’ un tenore con tutti i do al loro posto, per lui il do di petto è un fatto naturale. E’ tenore di grazia, lirico, drammatico e di forza. Possiede una tessitura della quale non ci sono altri esempi nella storia del canto. La sua nelle classificazioni è la più acuta delle voci maschili, ma il problema è che non è una voce maschile. -E quindi? – chiese con ansia il barbiere. -E quindi non so cosa dirle. Suo figlio è un genio ed è stato baciato dalla natura. Può fare delle cose perfette, passare alla storia. Ma presentarsi in pubblico con questo timbro è un rischio. Potrebbe fare dimenticare Caruso ma potrebbe anche fallire. Si udì allora la voce da orco di Cantammira -Io voglio cantare davanti alla gente. E Cantammira cominciò la sua carriera. Il professore, che in fondo era un brav’uomo, gli ottenne una borsa del Banco di Sardegna e lo mandò a studiare da un grande maestro di canto del Continente. Questi, dopo due lezioni, capì con chi aveva a che fare e prese a fargli lezioni solo in privato. Il maestro era davvero bravo. Non tentò di costringere il timbro ma lo lasciò sfogare per come era, allenandolo a scalare le vette che era in grado di raggiungere, cioè tutte. Poi prese a esibirlo in parti da solista, sino a quando lo lanciò al Regio di Parma in una replica dell’Elisir a sostituire il titolare della parte di Nemorino che aveva il contratto solo per la prima. Il suo nome comparve in cartellone tra i tenori sostituti. Lo applaudirono e il critico musicale, che casualmente era in sala pur essendo soltanto una replica, capì subito che era un fenomeno e gli fece un articolone. Fu il trampolino. Cantammira cantò da sostituto al Petruzzelli, poi a Torino e infine Graziani decise di chiamarlo nella sua città. Il direttore artistico voleva mettere in cartellone una Bohème. Le aveva costruito intorno una bella compagnia, da Rodolfo e Mimì sino a Benoit erano tutti artisti di fama che poteva avere a poco prezzo con il solito espediente di fissare la stagione lirica fuori dai periodi canonici, quando i cantanti sono a spasso. L’unico problema era che Rodolfo era libero soltanto per due spettacoli e la Bohème in quella città era un’opera che se non la ripetevi almeno tre volte le gente per protesta ti occupava a forza il politeama Verdi. E quindi arrivò Cantammira a fare Rodolfo per la terza serata. Graziani l’aveva già sentito in altri teatri e sapeva tutto di lui. -Lo sai che qui, con la tua voce, è un rischio? -Non ho paura. -Neppure di Massenziu? -Neppure. Con alcuni della compagnia aveva già cantato. Alle prove andò tutto bene. Non fecero neppure una generale perché l’avrebbero dovuta fare soltanto per Cantammira che era entrato nell’allestimento alla perfezione. Persino il regista diceva -Se fossero tutti intelligenti come quello la lirica italiana sarebbe ancora più avanti: è un attore nato. Mimì era Ines Esposito Tagliarini. Bella come Venere e anche brava. Quando vide Cantammira a occhi bassi e quel vocione da orco le rare volte che parlava e la vocina da angelo in paradiso quando cantava, si mise in testa di fargli perdere la testa. A una prova, mentre erano chinati in avanti a cercare la chiave sul pavimento, attirò la sua attenzione su un paio di mele golden delicious da aviazione casualmente lasciate libere e visibili dalla camicetta sbottonata. Lui fece finta di niente, poi alla fine della prova bussò al suo camerino. -Signora Tagliarini, le posso parlare? -Eccolo lì – pensò lei divertita – E’ fatto. Ora bisogna che me lo tolga dai coglioni. Aprì la porta con un sorriso. -Dimmi, carino. Come posso aiutarti? -Potrebbe aiutarmi tenendo la camicia abbottonata. Tanto so che lei non me la darà mai, però se mi distrae dal mio lavoro mi può fare molto male. Questa è la mia città e ci tengo. La Esposito Tagliarini lo guardò in faccia a lungo poi gli prese una mano -Stai tranquillo. Non scherzo più. Tu da me avrai soltanto aiuto. Vedrai, farai una bellissima figura. E arrivò quella sera. Non c’erano dischi suoi in circolazione, a Cantammira non avevano ancora fatto incidere niente, ma il pubblico locale sapeva già di lui e della sua voce. E quando si aprì il sipario la curiosità era grande. “Questo Mar Rosso mi ammollisce e assidera…”. Marcello era bravo, accidenti se era bravo. Un po’ vecchiotto, magari, ma uno dei più grandi baritoni del mondo e bastava quell’attacco per capirne tutta la grandezza. Graziani, con la bacchetta in mano, che emergeva per il pubblico con mezza schiena dal golfo mistico e a figura intera verso il palcoscenico, ebbe un pensiero improvviso -Ma cosa ci fa Cantammira con mostri sacri come questo? Dio mio, poveraccio, sarà un’umiliazione. E quando Marcello chiese a Rodolfo “Che fai?”, Graziani gli puntò la bacchetta con un sorriso paterno che voleva dire -Coraggio, tocca a te! E i “cieli bigi” di Rodolfo, nella gola di Cantammira, sembrarono davvero i cieli degli abbaini di Parigi. Fu un crescendo di incanto vocale e scenico che rimosse la percezione di quella voce femminile nella gola di un uomo irsuto, dalla fronte prominente, dagli arti tozzi eppure dai movimenti agili, dai balzi quasi acrobatici tra gli arredi precari della soffitta; e soprattutto dal canto perfetto. Entrò Mimì e quando si chinarono a cercare la chiave, la Tagliarini con un sorriso accennò con la mano al collo ben chiuso della sua camicetta. Cantammira le restituì il sorriso, fino a che le due mani non si incontrarono e attaccò “Che gelida manina”. Che sembra così però è piena di insidie. Ma Cantammira già al si bemolle di “chi son, chi sono”, porto con naturalezza come una ciliegia raccolta distrattamente dal ramo basso di un albero, fece capire che tutto sarebbe stato perfetto. Al do acuto della “speranza” si vedeva che il pubblico non vedeva l’ora di togliersi di mezzo il finalino “or che mi conoscete, parlate voi…” per interrompere l’opera con applausi da circo equestre. Il direttore Graziani per un po’ fece la parte dell’offeso perché nei teatri perbene si applaude soltanto alla fine dell’atto, ma infine cedette e interruppe l’esecuzione, limitandosi a guardare severamente Cantammira quando alla richieste di bis lui gli rivolse uno sguardo interrogativo -Li accontento? E il tenore al suo fianco udì il mormorio divertito della Tagliarini -Ora non esagerare e levati dai coglioni ché tocca a me. E nessuno si accorse che, in questo tripudio, Massenziu, sulla sua sedia di loggione che era sempre la stessa e che nessuno si sarebbe mai sognato di occupargli, era zitto, pensoso e guardava Cantammira con gli occhi socchiusi. “Mi chiamano Mimì”, fu un altro trionfo. E quando la Tagliarini concluse con “Sono la sua vicina che la viene fuori d’ora a importunare”, inutilmente, come da spartito, Schaunard tentò di legarsi con il suo “Ehi, Rodolfo!”. Graziani dovette arrendersi alle ovazioni e interrompere l’esecuzione per la seconda volta. Ma in fondo gli piaceva. Le cose stavano marciando che meglio non si poteva e il Verdi non è la Scala dove il pubblico durante l’esecuzione non deve fare notare la sua presenza a tutti quegli artisti che a ben vedere sono lì per lui. E il primo atto dolcemente declinò verso il colloquio d’amore finale, quello che attacca con l’estasi di Rodolfo che contempla Mimì immersa nella luce pallida della luna: “O soave fanciulla…”. E fu il disastro. Perché qui le due voci si sovrappongono e tutti ebbero la percezione precisa di ciò che Massenziu prima aveva già intuito ma che non riusciva a mettere a fuoco. Le due voci erano uguali, come se cantassero due donne. E il dialogo d’amore ebbe allora, all’improvviso, risvolti grotteschi. Rodolfo con il suo corpaccione e con voce da dea seducente diceva “in te ravviso il sogno ch’io vorrei sempre sognare” a una Venere con le belle forme malamente tenuto a freno dalla vesticciola da fioraia che con la stessa voce confessava “Oh come dolci scendono le sue lusinghe al cor” . Lei si svincolò maliziosa dall’abbraccio: “No, per pietà”. E lui con il suo corpo da fauno le rispose con voce da ninfa: “Sei mia!”. “Che m’ami di’” “Io t’amo”. Il pubblico rabbrividiva di sconcerto quanto più era dolce il sensuale scambio tra le due voci femminili. Sino a quell’ “amor” del finale, gridato dietro la porta chiusa alle loro spalle dai due innamorati che si avviano da Momus. Chi cantava non era più visibile e l’illusione del fuori scena rese ancora più marcata quell’invocazione erotica cantata all’unisono da due donne. Graziani con un gesto delicato della bacchetta fece cadere sul teatro le ultime note dell’atto, come una pioggerella lieve che a poco a poco cessa di battere lasciando la soffitta sola con l’ultimo raggio di luna. Ci fu un silenzio che era un attimo ma sembrò lungo come una carestia. E si udì dal loggione la voce di Massenziu. Una sola parola che espresse la sua percezione di ciò che era appena avvenuto sul palcoscenico -Svergognate! Ci fu ancora silenzio. Poi da un palchetto si udì un soffio come di tubercolotico che cerca di scatarrare e si riconobbe la risata repressa del geometra Calinari, erede di una delle antiche famiglie proprietarie del politeama. Quindi fu la volta del rantolo dell’avvocato Pigazzi, del sussulto con risucchio di donna Serena e infine arrivò il ciclone di risate che tutto travolse e il Verdi tremò come nell’incendio del ’23, quando sembrava la sua fine. Tutti ridendo, e come attendendo ordini, guardavano Massenziu che in piedi, immobile e silenzioso, fissava severo il sipario chiuso. Sino a quando il loggionista a passi decisi lasciò il teatro. La serata finì lì. A chi lo chiese, venne rimborsato il biglietto. Ma furono pochissimi. Cantammira insegna canto in America. Dicono che sia bravo.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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