Ci sono dei vini che si identificano con i luoghi che, per vocazione agronomica, lo producono meglio che altrove. Il Carignano, è il Carignano del Sulcis, come il Vermentino di Gallura o il Cannonau di Ierzu. Ma oggi noi stiamo qui a domandarci che ne sarà dell’assolato Sulcis. Terra di miniera, il Sulcis, per millenni, è oggi destinato alle industrie pesanti, alle servitù militari, e alle bonifiche mai eseguite. Una terra con tutta la bellezza stupefacente del caldo mare del Sud, con l’aggiunta di tutta quella storia millenaria, nuraghi, città stato fenice, tutta l’epopea delle miniere che ancora offrono scenari di archeologia industriale. Gallerie oggi trasformate in musei che celebrano la fatica degli uomini e la caparbietà dei sardi. Ma la miniera ha anche trasformato il pastore e il contadino in manodopera a basso costo. È una trasformazione antropologica, la maledizione della busta paga che rende dipendenti e incapaci di pensare un destino diverso. Ora nel Sulcis è in ballo un gigantesco progetto per la produzione di Biomasse. Come nel nord della Sardegna, dove la centrale a biomasse prevede la trasformazione dei terreni in coltivazione di cardo, nel sud dell’isola la previsione è quella di occupare qualcosa come 5000 ettari di canne. Pare che dietro questo progetto vi siano industriali molto vicini all’attuale governo, come spesso accade in questi casi, per poter usufruire di quella corsia preferenziale necessaria per farlo decollare in tempi brevi. E con malignità si potrebbe pensare, con la paventata chiusura della centrale elettrica di Porto Vesme, e vista anche la lentezza con la quale procede la vertenza Alcoa, che è sempre meglio tenere sulle spine o alle corde un territorio per poi costringere ad ingoiare progetti indigesti. La canna domestica, arundo donax, è una specie a rapido accrescimento, capace di una resa e di un potere calorico notevole. Una specie autoctona dell’isola, com’è noto, utilizzata in tutte le epoche per svariati usi, dalla costruzione di strumenti musicali alle molteplici produzioni industriali. Ma questa pianta, così amica dell’uomo nel passato, tanto da essere in Sardegna utilizzata per le launeddas, in realtà rappresenta, se coltivata massicciamente, un serio pericolo per l’ambiente e l’ecologia del terriotorio. Si dirà. Al posto di coltivare grano, o pomodori, si coltiva la canna, se rende di più. Che differenza fa? Intanto che la produzione di energia in Sardegna, di qualunque tipo, alimenta un surplus che viene inviato, grazie al nuovo cavo Sapei, fuori dall’isola. In Sardegna non se ne avrebbe nessun beneficio, pochissimi posti di lavoro, un po’ di affitto dei terreni, niente sgravi in bolletta. Questo a scapito di coltivazioni importanti, come la vite, gli ortaggi, il grano, i pascoli ovini. Poi questa coltivazione produce una sostanziale modifica dell’ecologia della zona, non solo perché, visto il rapido accrescimento, sottrae acqua in grandi quantità ed elementi nutritivi al terreno, ma anche perché predispone il proprio ciclo vitale allo scatenamento degli incendi. Infatti la canna è una specie altamente infiammabile e questo le consente, essendo una specie pirofila, di imporsi a discapito delle altre piante. L’arundo donax, essendo specie invasiva, tende, con il tempo, a trasformare l’habitat in cui vive espandendosi grazie agli incendi. Ora in Sardegna tutto abbiamo bisogno fuorché di piante che favoriscono gli incendi e l’aridità dei suoli. Ma soprattutto, ciò che più conta, è questo continuo pensare all’isola come luogo economico marginale e dipendente, come ad una economia periferica vocata esclusivamente allo sfruttamento estero e alla dipendenza. Un circuito vizioso anche antropologico. Si tende sempre di più a frustrare le abilità manageriali, le idee, i prodotti tipici e i saperi locali, per il comodo affitto di un terreno destinato a canne o cardi. Una strada che porterebbe la Sardegna in un vicolo cieco, una sorta di ruota di scorta energetica del paese, trascurando le grandi potenzialità di integrare prodotti agronomici con il turismo. Ho assaggiato da poco un apprezzato e conosciuto Carignano del Sulcis. Un vino spettacolare che ha ampi margini di crescita nel mercato mondiale. Pochi sanno che, dopo la strage provocata dalla filossera, nell’800, tutti i vitigni furono sostituiti con piante provenienti dal continente americano. Solo nel Sulcis si possono ancora ritrovare quei vitigni europei originari, derivanti da una antichissima e storica tradizione vitivinicola. Pensiamoci, pensiamoci bene, prima di trasformare la nostra isola in cardi e in canne. E beviamoci sopra.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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