I due calciatori svizzeri che ricordano con orgoglio la loro origine kossovara mi ha fatto tornare alla mente il tempo in cui le migrazioni di massa arrivavano dal nostro più prossimo est e la frontiera da difendere era una linea immaginaria nell’Adriatico. Era la fine degli anni novanta e io nei mesi estivi lavoravo per il servizio di vigilanza della Costa Smeralda. Ci arrivava l’eco lontana della repressione serba nella provincia del Kossovo e le cronache raccontavano di migliaia di profughi in fuga da quello sterminio, una fuga che interessava l’Italia e, così si disse, pure la Sardegna. Quella divisa da guardia giurata non conferiva nessun potere: eravamo pagati dal Consorzio per difendere le proprietà e il diritto ad una vacanza senza scocciature dei padroni delle ville. “Vacanza senza scocciature” è un’espressione generica, vasta, che contiene in sé tanti aspetti. Permettetemi dunque una digressione, prima di arrivare al kossovaro.
Fare sicurezza in Costa Smeralda significava, tra le altre cose, prevenire i furti individuando i possibili ladri, ma anche togliere dagli occhi del consorziato immagini di povertà e disagio, per i quali si intendeva, con grande fantasia e pregiudizio, anche il turismo dei camper. I superiori non mancavano mai di ricordarci che il turista del camper occupava spazio senza restituire nulla in termini economici al territorio, era dunque una presenza sgradita. Per rafforzare questa rappresentazione negativa, si argomentava sostenendo che i camper scaricassero a terra i residui organici degli occupanti: insomma, questi si permettevano una vacanza in Costa Smeralda senza spendere una lira e cagavano pure nelle spiagge del principato di Gallura. Massima offesa, da lavare con decisione! Quel che in realtà più infastidiva il padrone della villa era l’idea di “nomadismo”, zingaresca che il camperista impersonava. E quindi noi venivano sguinzagliati alla ricerca del camper. Però il camper in sé non violava nessuna legge o ordinanza: l’unico appiglio era pizzicarlo in “atteggiamento da campeggio”. Una vecchia ordinanza comunale, peraltro sempre in vigore, vietava il campeggio in molte aree del comprensorio comunale, compresa ovviamente la Costa Smeralda. “L’atteggiamento da campeggio” era quello dei camper con quei piedi d’acciaio estensibili che dal fondo del mezzo si piantavano a terra. Bussavamo alla porta, mostravamo la copia dell’ordinanza e chiamavamo vigili urbani o carabinieri quando gli occupanti ci mandavano affanculo, richiudendoci la porta sul naso. Vigili urbani e carabinieri non venivano mai. Certi colleghi anziani usavano metodi particolarmente energici: uno di loro, una volta, individuò un camper fermo in una piazzola di Liscia Ruja. Non trovando nessuno a bordo, andò a cercare in spiaggia. I proprietari, una coppa di stranieri, si erano accampati in riva al mare e stavano arrostendo dei pesci su una griglia, da cui saliva in cielo un esile fil di fumo. Era piena estate e il fuoco era vietato. La vecchia guardia si avventò su di loro e con un calcione scaraventò griglia e cena in mare, senza dire una parola: il collega che lo accompagnava mi raccontò che i due, investiti da quella violenza, non ebbero neppure la forza di protestare.
I camperisti, inoltre, finivano col confondersi con quelle famiglie di giostrai che puntualmente arrivavano in Sardegna su lussuosi caravan, nel pieno dell’estate, e a cui si attribuivano furti seriali ed altre malefatte.
La morsa sui camper si allentò in ragione di un fatto singolare, registrato personalmente in Costa Smeralda alla fine degli anni novanta. Fui sollecitato ad intervenire per la presenza di uno di questi alloggio su ruote in un’area di sosta di Romazzino, zona alla quale venivo abitualmente assegnato. Trovai l’autista davanti al mezzo e iniziai a parlarci, cercando di prenderla molto alla larga. Era un signore baffuto, tozzo, modesto e molto simpatico. Si chiamava Ronchetti e veniva dalla Brianza. Una parola dopo l’altra, venne fuori che era il proprietario della sontuosa villa in via di costruzione proprio davanti all’area di sosta, ma siccome gli piaceva tanto il camper preferiva assistere ai lavori dalla sua casa mobile, anziché starsene in albergo. Cosa che sarebbe certamente stata nelle sue capacità economiche, essendo egli stesso un facoltoso costruttore. Quando illustrai la faccenda nel rapporto di servizio, spiegando che il camperista era un consorziato, fu come esporre per la prima volta la teoria copernicana. Com’era possibile che un camperista non fosse uno straccione che scroccava la vacanza in Costa Smeralda ma, al contrario, uno di quei duemila soci del Consorzio che ci pagavano lo stipendio? Con Ronchetti ci vedemmo per settimane, lunghe e piacevolissime chiacchierate. Un giorno mi levai una grande soddisfazione. Nella villa confinante alloggiava un avvocato che più o meno arrivava dalle stesse parti del costruttore camperista. Quest’avvocato, vedendomi un pomeriggio fare il mio giro davanti alla sua villa, mi fece un cenno con la mano dalla terrazza e venne a parlarmi. Era indignato perché, in una zona residenziale come quella, secondo lui non era tollerabile la presenza di camper. Reclamò una sbarra all’ingresso della strada, in modo che nessun estraneo potesse arrivare da quelle parti, ed insinuò una nostra mancanza di professionalità, dal momento che noi vigilantes avevamo consentito ad un mezzo decisamente fuori contesto di arrivare fin là, turbando la sua tranquillità. “Dove andremo a finire?”, mi chiese puntandomi l’indice. Non aveva minimamente idea di chi fosse il proprietario. Io lo lasciai sfogare, annuendo e ridacchiando tra me e me. Senonché vedemmo Ronchetti, che aveva sentito tutto, avvicinarsi a noi con un sorriso bonario e infine tendere la mano al suo vicino di villa. Quello in un primo momento la ritrasse, ma fu poi costretto a concedere la stretta quando Ronchetti si qualificò, spiegando di essere il proprietario di quel mezzo che all’altro sembrava così fuori posto. L’avvocato, imbarazzatissimo per la gran figura di merda, se ne tornò nel suo salotto vista mare con la coda tra le gambe.
E fu più o meno in quel momento che la nostra attenzione di custodi della Costa Smeralda venne dirottata, per un certo periodo, sui kossovari.
Sapevamo di questa diaspora, che i giornali raccontavano con i toni drammatici che meritava. Noi guardie ne fummo interessate perché non so chi ci disse che era previsto l’arrivo di un certo numero di profughi anche in Costa Smeralda. Uomini alla deriva, senza destinazione precisa né un’idea di futuro, in cerca di dignità e di pace. Ma quella fame poteva tradursi in furti, occupazioni abusive, espedienti fuorilegge per poter sopravvivere alla miseria. E dunque nelle comunicazioni radio era tutto un susseguirsi di comunicazioni in cui si riferiva di avvistamenti di kossovari, come se la loro etnia d’origine ce l’avessero stampata in fronte, come se per molti di noi l’esistenza del Kossovo non fosse stata una scoperta di soli pochi giorni prima. Era un po’ come il Deserto dei Tartari di Buzzati: giorni interi ad attendere questa invasione che, nei fatti, mai ci fu. Non ricordo ci sia mai stato un furto o un qualunque altro reato attribuito ad un kossovaro, eppure per un pezzo di quella lontana estate fu la nostra occupazione e preoccupazione principale. Molte volte mi veniva da ridere, pensando al ruolo mio e dei miei colleghi: poche centinaia di migliaia di lire al mese per garantire serenità a chi stava in vacanza, il che significava anche dar la caccia a camper e kossovari. Nel microcosmo della Costa Smeralda di allora, fatte le debite proporzioni di censo, camperisti e kossovari me li immagino un po’ come i migranti e i Rom di oggi. C’è sempre qualcuno che recinta una zona, qualcuno che deve proteggere i confini e respingere chi sembra diverso.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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