Tutti dicono: che caldo. Ed è un’ovvietà. Non riusciamo a stare neppure per un attimo senza condizionatore e se qualcuno ha l’auto senza aria condizionata lo prendiamo per “antico”. Eppure io ricordo quelle estati assolate ed infinite negli stazzi della Gallura a sentire cicale e a giocare sotto l’ombra della “suaredda”. Da mia nonna, nello stazzo, non c’era neppure la luce e si utilizzava la lampada a gas. Erano estati senza televisore e per noi, ragazzi di città, quelle giornate senza la TV erano comunque bellissime. C’era caldo, ma era un caldo dolcissimo, avvolgente, che prendevi per quello che era: caldo d’estate. Ci si alzava la mattina presto e si andava ad innaffiare l’orto. Poi si sceglieva un’anguria e la si metteva sotto la fontana: era quello il frigorifero. In alcuni giorni si panificava e ricordo mia nonna sudatissima davanti a quel forno che pareva la bocca dell’Etna in eruzione. C’era caldo, ma era un caldo che si accompagnava alle melanzane al forno e alle spianate soffici fatte con il grano duro: “lu trigghu ruju”. Adesso c’è caldo e finiamo per infilarci in quegli enormi store dove l’aria condizionata è “a palla”, dove c’è qualcuno che ti vende ali di pollo fritte, patatine, gelati. Ma non è la stessa cosa. Gli anni della Gallura erano caldissimi e dolcissimi. Probabilmente perché invecchio ma, davvero, non ritrovo più nei paesaggi che i miei occhi vedono oggi quel giallo e quella insensata bellezza che una campagna d’estate sapeva regalare. Caldo compreso.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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