Oltre ai tifosi della Svezia, tanti altri hanno gioito per l’eliminazione dell’Italia dai prossimi mondiali di calcio. Ne hanno pieno diritto, per carità. Però anche io ho diritto di esprimere la mia più sincera antipatia per una specifica categoria della minoranza che detesta il calcio, ben individuabile in mezzo a quel pubblico che sta ancora festeggiando per la disfatta sportiva di San Siro. Ne definirò i connotati alla fine di questo post. Il pallone a molti non piace, per tutta una serie di ragioni note. Ci sono quelli contenti per l’eliminazione della nazionale perché il calcio è invadente, persino molesto nel suo diventare in certi momenti della nostra vita il principale argomento di discussione e il titolo d’apertura di tutti i telegiornali, togliendo la scena a questioni ben più importanti. Devo riconoscere che hanno la loro parte di ragione. Ci sono quelli che odiano l’Italia per motivi politici e proiettano il loro odio su qualunque espressione di quello Stato, tanto che su una bacheca Facebook ho letto che per la prossima estate è scongiurato il rischio di vedere “carta igienica tricolore” pendere dalle finestre. Ognuno di noi ha preferenze e avversioni, inutile discuterle. Infine, ci sono loro. Quelli che il calcio puzza di popolo incolto; quelli che il calcio è un grossolano passatempo per bifolchi; quelli che il calcio serve a distogliere le masse da ben più gravi problemi; quelli che, essendo sempre all’opposizione, tifano contro la nazionale perché è uno strumento di propaganda e se vincesse rafforzerebbe il potere politico del governo; quelli che il calcio altro non è se non la riedizione di “panem et circenses”. Ne conosco parecchi, di questi soggetti. Sottolineano il loro ribrezzo per le passioni della gente comune per dimostrare superiorità intellettuale e rimarcare la loro distanza dalla massa informe, cui nessuno ha insegnato il gusto e le priorità della vita. “La gente è stupida e va appresso a queste cose, la ubriachi con un pallone e la moviola e dimentica tutto il resto”, sarebbe il loro motto. Gente che non guarda il festival di Sanremo perché lo guardano tutti, gente che deride chi ascolta Ligabue perché lo ascoltano tutti, gente che ha un bisogno disperato di affermare la propria solitudine come status symbol. Gente che evidentemente non ha mai letto una cronaca di Gianni Brera o di Beppe Viola, letteratura raffinata contenente la complessità dell’universo sportivo, ben più ricco della semplice rincorsa su un prato verde ad un pallone rotolante. O che non ha letto, ieri, il magnifico commento su L’Unione Sarda di Celestino Tabasso, che accostava il calcio alla collettiva follia tribale della caccia primitiva ma, alla fine del pezzo, si rammaricava per le emozioni mancate di questo mondiale perduto. Chi da sempre se ne sta per conto proprio per mostrare al mondo la propria superiorità, chi esulta per la delusione altrui, ben difficilmente potrà capire la felicità della condivisione, qualunque sia l’elemento che la innesca. Alla nazionale di calcio sono legati ricordi indelebili della nostra vita, che fossero successi o anche delusioni cocenti come quella di lunedì. Non si gioisce per aver vinto delle partite di calcio e non si piange per averle perse, non è solo questo. Si gioisce e si piange perché il calcio è comunità. Si ride e si piange assieme perché gioia o delusione ci fanno sentire piccole parti di un tutto e, in fondo, attenuano le nostre solitudini e accorciano certe distanze. La nazionale di calcio è sempre stata un elemento unificante, un carnevale che non ci ha mai impedito, a bocce ferme, di guardare ai veri problemi della vita. Si può anche gioire per una altrui delusione sportiva, ma c’è maniera e maniera.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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