Cagliari, martedì 5 aprile. Nell’aula del Consiglio comunale è previsto un incontro pubblico per il venticinquennale della tragedia del Moby Prince, il traghetto della Navarma, finito contro la petroliera Agip Abruzzo a due miglia da Livorno, la notte del 10 aprile 1991. Una commemorazione frutto di uno scambio di battute, su Facebook, tra Luchino Chessa, medico, professore dell’università di Cagliari, figlio di Ugo Chessa, comandante del Moby Prince, e il sindaco Massimo Zedda. Un esempio di utilizzo intelligente dei social network sfociato in un appuntamento capace di coinvolgere, una volta tanto, politici, giornalisti, cittadini. Luogo privilegiato per l’incontro proprio il Consiglio comunale di Cagliari. Il rischio che l’evento potesse tramutarsi in un fiasco non era del tutto remoto: fino all’ultimo la sala si presentava ancora desolatamente vuota. Forse aveva visto giusto l’usciere del Comune, che vedendoci arrivare con largo anticipo per il timore di dover restare in piedi preannunciava con malcelato scetticismo “molti posti a disposizione”. Lo scarso traffico è un incentivo ad ammirare in tutta tranquillità la sala del Consiglio e soprattutto scegliere un punto dove fare qualche foto e inquadrare correttamente lo schermo nel quale verrà proiettato, in anteprima, “Buonasera, Moby Prince”, video-inchiesta del giornalista Rai Paolo Mastino. Nel giro di qualche minuto arrivano i parenti delle vittime, le vittime sarde della tragedia: tolgono giacche e giubbotti per indossare le ormai consuete magliette rosse, simbolo di una battaglia di verità e giustizia che dura cinque lustri. Anni di “rabbia e determinazione” senza i quali l’obiettivo dell’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta non sarebbe stato raggiunto. Perché per la tragedia del Moby Prince, a tutti gli effetti classificabile come uno dei “misteri d’Italia”, la magistratura non ha trovato alcun colpevole: soltanto un paio di prescrizioni a favore di alcuni personaggi minori, propedeutiche almeno alla liquidazione dei risarcimenti danni. Si è parlato di una frattura tra i parenti delle vittime; quelli che si riconoscevano in Loris Rispoli, che sul Moby ha perso la sorella, e gli altri riuniti attorno ai fratelli Chessa (Luchino e Angelo, figli del comandante del traghetto): una divaricazione che negli anni è stata superata, ma che in tempi lontani si è manifestata anche a livello processuale. La battaglia dei Chessa è quella di riabilitare la memoria del padre: ce n’è bisogno, perché per anni si sono scaricate le colpe del disastro sul comandante della Moby Prince e sui membri dell’equipaggio. Provate ancora oggi a domandare in giro della tragedia e vi sentirete rispondere che, sì, quella nave era finita tanto tempo fa contro una petroliera per colpa dell’equipaggio incollato alla tv per una partita di calcio. “Tutti morti e poi c’era pure la nebbia, a complicare le cose”, questo vi diranno, ammesso e non concesso che si ricordino della più grave tragedia della marineria italiana dal dopoguerra. Raro caso in cui la memoria collettiva coincide con le sentenze: le numerose pronunce della magistratura sul caso, compresa l’archiviazione del 2010 che pone termine a un nuovo ciclo di indagini voluto fortemente dai familiari delle vittime, attribuiscono la colpa dell’incidente all’equipaggio della Moby. Tutto chiaro, quindi? Forse no. La sala del Consiglio è ormai piena. L’usciere, che ne ha viste di tutti i colori, per una volta, si è sbagliato: avevamo ragione noi. Parenti delle vittime, giornalisti, cittadini e politici. Tra questi, il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta, Silvio Lai, e i commissari Uras e Floris. Molto defilato il consulente Bardazza, direttamente da Milano, che sta aiutando i familiari delle vittime in una serie di accertamenti tecnici e c’è anche Alberto Testa, giornalista dell’Unione Sarda, protagonista di una delle audizioni più interessanti di questi tre mesi di lavoro della Commissione: parole suffragate da moltissime carte. Testa ha letteralmente travolto di documenti la Commissione, al contrario di qualche altro collega un po’ troppo reticente. Una differenza non sfuggita al presidente Lai, che ha rimarcato la maggiore capacità dei giornalisti sardi di dare un contributo alla ricerca della verità su questa vicenda. Poco dopo le 11, inizia il dibattito. Sono poche e chiare le parole di Luchino Chessa rivolte ai membri presenti della Commissione: “Voi siete l’ultima speranza di avere verità e giustizia”, dice il figlio del comandante del Moby Prince, “ma sia chiaro che in ogni caso non ci fermeremo mai. E se non saremo noi, saranno i nostri figli e i nostri nipoti. Andremo avanti, perché è un atto di democrazia riuscire a capire che cosa sia successo quella notte”. Un auspicio molto “sardo”, come ribadirà con un sorriso qualcuno. Chessa ha riletto, in aula, un passaggio della richiesta di archiviazione presentata dai Pm nel 2010, dopo i grandi sforzi sostenuti dai familiari delle vittime per far riaprire le indagini: “La morte prematura e improvvisa”, scrivono i magistrati di Livorno, “è umanamente inaccettabile quando la causa appare banale e assurda, ma individuare a ogni costo e senza elementi probatori processualmente spendibili, determinismi e nessi casuali eclatanti, clamorosi e di ‘alto livello’, oltre a dissipare preziose risorse, avrebbe il solo effetto di riaprire ferite peraltro mai rimarginate, di creare illusioni nei vivi, uccidere una seconda volta i morti, fare molte altre vittime innocenti e costituirebbe un pessimo esercizio del servizio giustizia”. Per Chessa “conclusioni che hanno fatto male, parole orribili” che mettono “in evidenza le ‘colpe’ del comandante. Secondo la Procura la tragedia del Moby Prince sarebbe imputabile al comandante della nave. Ugo Chessa, mio padre”. L’intervento del figlio del comandante si conclude ricordando l’iter che ha portato alla istituzione della Commissione di inchiesta: una prima interrogazione del parlamentare Michele Piras alla ministra della Giustizia Anna Maria Cancellieri (governo Letta), poi un incontro a Sassari, tra la stessa Cancellieri alcuni familiari delle vittime accompagnati dai senatori Lai (poi futuro presidente della Commissione) e Manconi (risale a quella occasione l’impegno per la costituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul disastro). La Commissione diventa realtà nell’estate 2015 e i lavori iniziano pochi mesi dopo, a dicembre. L’intervento di Silvio Lai è stato incentrato sul metodo di lavoro seguito dalla Commissione. “In questi tre mesi, non sono poche le persone che si stanno facendo avanti volontariamente per essere sentite e parlare. La Commissione”, dice il senatore sardo del Pd, “ha scelto di sentire chiunque chieda di essere ascoltato, al di là del percorso stabilito. Capita spesso che i commissari si trovino di fronte a una audizione non prevista, ma motivata dal fatto che si tratti di una persona che sceglie di contattare la Commissione per parlare”. “Dopo il sopralluogo a Livorno”, proseguente il presidente Lai, “abbiamo deciso di analizzare tutta la fase processuale e le inchieste giornalistiche che sono state fatte. Ci siamo resi conto che esistono strade inesplorate. Abbiamo individuato fattori sui quali i metodi di indagine attuali possono aiutare ad accertare la verità al di là che si trovino o meno tracciati radar o immagini satellitari, che però abbiamo chiesto e siamo in attesa di avere. Ma vorremmo pensare che senza avere quelli si possa fare altro. Abbiamo scelto come soggetti incaricati di indagare sulla meccanica dell’incidente un corpo militare che non sia stato già coinvolto nelle indagini. Per cui abbiamo chiesto alla parte marina della Gdf di fornire la consulenza formale alla nostra Commissione di inchiesta su questo tema specifico”. “Ai carabinieri del Ris di Parma”, prosegue Lai, “è stato affidato il compito di ricostruire ciò che è avvenuto dentro la Moby: quindi i temi legati alla sopravvivenza (di passeggeri e personale, ndr), ma anche ciò che è avvenuto dentro la nave per opera dell’equipaggio”. “Al di là dei tempi di sopravvivenza”, dice il presidente Silvio Lai, “il modo in cui sono stati fatti i soccorsi sono per noi oggetto di lavoro nel tempo in cui i soggetti istituzionali incaricati scioglieranno i nodi tecnici degli altri due quesiti”. Il presidente della Commissione di inchiesta conclude il suo intervento con un impegno vincolante: “Se le prime risposte che arriveranno non saranno di aiuto alla Commissione”, dice Lai, “noi chiederemo al Governo, in prima persona, di svolgere la funzione che un Governo deve svolgere. Sta cercando di svolgerla, con grande intensità, su un italiano che è stato barbaramente ucciso (Giulio Regeni, ndr), non vedo perché non debba farlo per 140 vittime che 25 anni fa sono morte a due miglia da un porto italiano e a poche miglia dalla più grande base americana nel Mediterraneo”. Durante l’incontro è stato proiettato, come accennato, “Buonasera, Moby Prince”, la video-inchiesta di Paolo Mastino, giornalista del Tgr Sardegna, che prende il titolo dal saluto che il secondo ufficiale della nave, Lido Giampedroni, soleva fare a equipaggio e passeggeri. Un lavoro accurato, apprezzato anche dai commissari presenti, ma che, a nostro avviso, ha il punto debole di non approfondire il ruolo della base americana di Camp Darby né la vicenda della mancata fornitura dei tracciati radar da parte degli americani, senza i quali sarà difficile capire cosa davvero è successo in quella notte di venticinque anni fa.
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