Se dovessi chiudermi in un bunker, e la cosa non è affatto teorica, mi mancherebbero da morire le camminate, le mie escursioni tra le isole. L’altro giorno ad esempio sono tornato a percorrere l’anello che unisce Cala Francese-Carlotto-Testiccioli-Cala d’Inferno-I Colmi e si chiude nuovamente a Cala Francese. Se prendete una carta di La Maddalena e controllate la costa centro-occidentale, trovate subito i riferimenti.
Il tratto più impervio, tra Testiccioli e Cala d’Inferno è un posto poco frequentato, non essendoci spiagge o strutture usate dall’uomo. Infatti non c’è neanche il sentiero. Io dico che se ci passano due persone all’anno è anche troppo. Ed è un posto pieno vedette militari abbandonate, ruderi, sorgenti. Confesso che sarebbe una buona alternativa al nascondersi sottoterra.
Un tempo il bunker rappresentava il dentro assoluto, era il simbolo stesso di una soggettività contrapposta a un “là fuori” a una alterità fatta di pericoli e minacce. Si entra in un bunker per sfuggire all’assedio del mondo. E quelle vedette stanno lì a ricordare di quando La Maddalena era un’isola-bunker, specialmente tra la fine dell’Ottocento e la Seconda Guerra mondiale.
Ma già quello era un periodo in cui il “fuori” stava perdendo terreno, a livello globale, mentre il “dentro”, il “noi”, il “qui e ora” si dilatava progressivamente e occupava sempre più spazi, collegava città e continenti, raggiungeva vette sempre più alte, abissi più profondi, fino a progettare di raggiungere corpi celesti esterni alla Terra, cosa che sarebbe avvenuta pochi lustri più tardi.
E ho provato una sensazione strana l’altro giorno, fermandomi su quella scogliera per guardare dall’alto il fondo del mare, una sensazione di ribaltamento. E ho pensato: oggi il bunker è “il fuori”. Per chiudersi in un bunker oggi è necessario uscire, non più entrare. Ed è difficilissimo uscire. Come mi hanno ricordato il mio bisogno di scattare foto col cellulare e di guardare l’orologio, e i mucchi di plastica portati dal mare che nessuno pulirà perché lì non ci va nessuno. Quelle plastiche sono come dei satelliti involontari, delle sonde interplanetarie inconsapevoli. Portano informazione e civiltà laddove per millenni il mare e il granito se la sono cavata benissimo da soli.
Ma dunque siamo già dentro il bunker, e l’unico modo per trovare un rifugio è “uscire”? Ma se proprio nell’atto di uscire, non facciamo altro che allargare questa specie di dominio, di onnipresenza su ogni minimo lembo di pianeta, allora significa che siamo destinati al bunker?
Non mi sono ancora risposto, e probabilmente non lo farò.
L’unica, mi sa, è continuare a girare, magari facendo qualche foto in meno, guardando meno l’orologio, e portandomi indietro qualche pezzo di plastica, così, per gusto.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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