Chissà perché il film con Frank Sinatra e Marlon Brando del 1955 con il titolo originale guys and dolls, ovvero “ragazzi e bambole” fu tradotto in italiano “bulli e pupe”. Probabilmente perché rendeva meglio , aveva più “charme”, aveva una finalità simpatica. Probabilmente. Perché, almeno nell’accezione di quei tempi essere “bullo” non significava qualcosa di negativo. A quei tempi – e parlo della fine degli anni 50 – essere bullo rappresentava, per un ragazzino essere “sveglio, al passo con i tempi, uno con l’argento vivo addosso”. Personalmente non sono stato mai un bullo, per l’esattezza potrei essere definito un imbranato. Mestiere che è cominciato alle scuole elementari e che si è perpetrato sino all’università. Diciamo che non ne ho fatto una bandiera. Però, dalla condizione di imbranato, ho provato a decifrare e codificare il mondo dei bulli e delle pupe. E ho capito, da subito, una cosa: essere bulli era terribilmente semplice ma nascondeva qualcosa di complesso. I miei riferimenti, quando parliamo di bulli, sono quelli che ho frequentato: c’era Enzo, con un sorriso velocissimo e la particolarità di fidanzarsi con qualsiasi ragazza. Si atteggiava, corteggiava e si vantava di aver toccato molte tette. C’era Silvio, alto il doppio di noi tutti che amava litigare con tutti ma era terribilmente solo. Poi, ancora, Carmelo, il mio compagno di banco, una sorta di Fonzie all’amatriciana. Non chiedeva mai scusa e neppure per favore. Angelo, il ragazzo dagli occhi azzurri, che continuava a fare scherzi a quella del primo banco, la più carina e, come direbbe Antonello Venditti, la più cretina. In mezzo c’ero io e tanti altri che proprio bulli non eravamo. Non lo saremmo mai stati e, probabilmente, non potevamo mai diventarlo. Anche perché, a dirla tutta, a fare i cretini, a mostrarci spavaldi, ci vergognavamo. Questo, io credo, è il primo punto che si è modificato nel corso degli anni perché c’ è stata la possibilità di poter fare qualcosa senza essere visti. È l’ adrenalina dell’adolescente, la forza nascosta che ci accompagna negli anni e ci porta a conquistare le posizioni all’interno della vita. C’era però a quei tempi un fattore frenante: il correttore naturale era rappresentato dai genitori o dagli adulti che riuscivano a disegnare solchi chiari e netti dove noi, ragazzini scapestrati, volevamo continuare a sguazzare. I genitori rappresentavano un punto fondamentale nella nostra crescita: vedevamo le loro limitazioni come limiti ma, in ogni caso, mai avremmo pensato di andare contro la loro decisione. Una delle giornate più difficili era rappresentata dall’incontro tra i genitori e i professori: i famigerati colloqui. Ricordo con quale ansia e paura li affrontavo, ben sapendo che in certe materie zoppicavo e ben sapendo che il professore avrebbe sicuramente evidenziato quelle mancanze, quei brutti voti, quella mia poca voglia di studiare. Oppure un’altra paura era rappresentata da una nota o da una sospensione a seguito di una mancanza grave. In quei frangenti non mi è mai passata l’idea, neppure per un attimo, che mia madre potesse difendermi davanti al docente o al preside; sapevo benissimo che il suo modo di vedere le cose si accostava a quello dei professori, al mondo degli degli adulti e nessuno si sognava, almeno a quei tempi, a relegare l’atto compiuto come una ‘ragazzata’. Se venivi scoperto sapevi che non l’ avresti scampata e la punizione sarebbe calata inesorabile sulla tua esistenza: non uscire per una serie di giorni, divieto di vedere gli amici, anche a casa, obbligo di studiare con controllo genitoriale. Non ho mai ottenuto nessuno sconto di pena durante tutta la fase adolescenziale anche se, devo ammettere, qualche volta l’ho fatta franca, più per fortuna che per bravura. Una delle punizioni che io non sopportavo era il divieto di ascoltare musica; la ritenevo una condanna ingiusta e severa. Eppure, non ho mai rinfacciato a mia madre la durezza e l’asperità di quelle scelte, di quelle serate in silenzio, senza poter ascoltare Claudio Baglioni e i Deep Purple. Dico questo perché il secondo tassello, dopo quello dell’anonimato è inesorabilmente saltato: i genitori partono, molte volte, dal presupposto che i ragazzini non abbiano commesso gravi errori, che dobbiamo comprenderli perché, poverini, sono stressati. In questo mondo elettrico e veloce la parola ‘stressato’ è diventato di linguaggio comune. Quante volte avete detto:poverino, è stressato, troppi compiti, i professori esagerano. Che pena questi ragazzini, non possono più giocare a pallone che subito c’ è qualcuno che si lamenta, che sarà mai se prendono in giro un amichetto, sono cose da ragazzi. Certo, sono cose da ragazzi e sono, come è stato detto, sempre accadute. Il problema è il luogo, il recinto sociale che si è, grazie alle nuove tecnologie, ampliato notevolmente e quello spiritoso sfottò tra amici rischia di essere conosciuto da migliaia di altri ragazzi. Da piccolo, dalla quinta elementare per l’esattezza, ho portato gli occhiali in quanto avevo una forte miopia. Da quel giorno i miei amici -ero l’unico a quei tempi – mi affibbiarono il soprannome di ‘quattrocchi’, nomignolo usato da molti. Ero quattrocchi solo per venti ragazzini, la mia classe e, oltre a me, c’erano anche altri con i nomi e i cognomi storpiati :Gigi Salaris diventava Gigi Salame, Caterina era la mucca carolina. Insomma, era il mondo dei bambini che se ne guardavano bene da utilizzare i nomi alla presenza della maestra o davanti ai genitori. Quello era un mondo piccolissimo dove era lecito utilizzare gli sfottò per delle imperfezioni fisiche o solo per il gusto di prendere in giro. Era un piccolo mondo salutare, dove i ragazzini imparavano anche a difendersi e ad essere difesi da altri amichetti. Si preparavano , paradossalmente, a quello che gli sarebbe accaduto nel prossimo futuro, imparavano a cercare le alleanze, a non rivolge la parola a qualcuno e ad innamorarsi di qualcun altro. L’involuzione che c’ è stata in questi ultimi anni è rappresentata dall’arroganza di certi adulti più che dalla tracotanza dei ragazzini. Quando un magistrato, in quanto magistrato, si presenta davanti alla preside e pretende di sanare i giorni di sospensione presi dal figlio; quando un giornalista decide di scrivere un articolo contro i docenti perché ritiene che sua figlia abbia subito un abuso per quel quattro in matematica ecco, credo che questo sia un atteggiamento da bulli ed è pericoloso. Questi episodi sono accaduti al Liceo Virgilio, uno dei più rinomati e importanti di Roma. Questi episodi accadono un po’ da tutte le parti. I nostri figli hanno ormai il cellulare a sei anni, giustificato dalle nostre paure e ansie che rischiano esclusivamente di crescere figli stressati e insicuri, incapaci di attraversare la città senza utilizzare google map; noi monitoriamo i ragazzini con whatsapp, siamo i primi a costruire gruppi dove siamo convinti che si possa scrivere di tutto e di tutti senza renderci conto che quelle parole, quegli scritti possono essere fotografati ed inviati ad altre persone, ad altri gruppi. Noi siamo l’esempio dei nostri figli e allora vi chiedo: che ragazzino ne uscirà fuori dalla famiglia di quel magistrato e di quel giornalista che hanno attaccato, senza neppure verificare i fatti, la scuola dove i loro figli passano moltissimo tempo? Siamo così convinti di sapere tutto dei nostri figli, ma quando scopriamo il loro vero comportamento diciamo subito che la colpa è degli altri, delle istituzioni che non insegnano più le buone maniere. I ragazzi oggi vivono ogni attimo con il loro cellulare che utilizzano per tutto, tranne che telefonare. Pensateci: noi che dovevamo rimettere i nostri figli dentro i solchi della normalità li abbiamo seguiti in questa strana avventura. È come se mia madre, ai tempi della mia adolescenza, ascoltasse Led Zeppelin, si fosse indossata i pantaloni a zampa d’elefante e avesse gridato nelle piazze “io sono mia”. Noi, oggi, stiamo commettendo questo errore: per capire i ragazzi copiamo i loro modi di fare, utilizziamo gli stessi loro mezzi. Nessuno, o quasi nessuno telefona più. In una famiglia di quattro persone esiste il gruppo whatsapp con il quale si comunica. Tutto più veloce e più semplice ed invece è tutto più complicato. Perché si perde la dimensione del dialogo, si perde la possibilità di capire ciò che realmente sta accadendo al ragazzo. I segni sono sicuramente allarmanti: lo schiamazzo del cortile, quello delle aule, il chiacchiericcio dei bar è diventato l’agorà dove tutti ci affacciamo con le nostre parole, le nostre foto, i nostri video. Tutti siamo diventati a nostro modo protagonisti, tutti abbiamo ottenuto, come prevedeva Andy Warhol, i nostri quindici minuti di notorietà. Tutto è diventato a portata di mano, anche se con mano non si tocca più nulla. Ci si parla solo per messaggistica e le foto servono solo per ottenere qualche like, qualche apprezzamento falso, sdolcinato, che però ci fa bene. Solo apparentemente. Perché qui c’è il terzo punto della questione ed è il punto fondamentale: la dialettica del corpo, delle parole e la gestione delle situazioni. Il primo tassello era provare a fare delle cose “monelle” senza farsi trovare, il secondo era la paura di essere trovato e quindi punito, il terzo punto, almeno ai miei tempi, rappresentava la conclusione dello scherzo, dello sfottò e tutto finiva all’interno di quel contesto. Oggi, l’impunità del web aiuta gli audaci che non si rendono conto del male che stanno costruendo ma questi, e occorre dirlo a gran voce, sono lasciati soli perché i genitori o sono troppo presi da altre cose o ritengono che questo mondo virtuale non sia la realtà. Questo è un grandissimo errore. Vi prego di riflettere molto bene su questo passaggio che ritengo fondamentale: il virtuale è diventato terribilmente reale e i nostri ragazzi ci camminano dentro per ore, giorni. Parlano, si muovono, inviano foto, filmini, giocano e camminano su un filo spaventosamente sottile. L’osservatorio sul cyberbullismo non nasce per costruire una linea ma nasce per far capire la pericolosità di ciò che il web può diventare. Dentro quel mondo si può far male ma ci si può anche fare molto male. Il centro giustizia minorile della Sardegna è da anni impegnato in questa battaglia che non è una crociata ma è soltanto un’analisi di una realtà che si modifica quotidianamente. Non possiamo attendere che tutto si consumi, che i ragazzi commettano dei reati, che non capiscano quanto è terribile percorrere certe strade. Lo diciamo ai ragazzi ma lo vogliamo dire fortemente ai genitori: ascoltate i vostri figli, mostratevi attenti anche ai loro silenzi, provate a coinvolgerli. Cominciate ad utilizzare un piccolo codice etico: davanti ai messaggi che vi arrivano voi fate una telefonata, chiedete di condividere le pagine del web, dite che le parole hanno sempre un peso e possono fare molto male. Insegnate ai ragazzi l’amore per la bellezza, per le piccole cose e puniteli quando meritano. Non sentire J-Ax per una sera servirà a comprendere quanto è importante la musica, quanto è importante imparare a vivere con gli altri e per gli altri. Un like non ci va vincere nulla, un sorriso vero, un rimbrotto reale ci mantiene in vita e ci fa capire che esistiamo. Il virtuale è un passaggio per conoscere la superficie degli altri ma non serve per conoscere i sentimenti degli uomini. Quello è il mondo photoshop, fatto di aiutini, di furbizie, di falsità che nel mondo reale non esiste in quanto non è possibile correggere i difetti e dobbiamo insegnare ai nostri figli di essere orgogliosi delle proprie differenze perché li rende unici. Dobbiamo insegnare ai nostri figli la cultura della sconfitta, dobbiamo insegnare ai nostri figli a non farsi usare dai mezzi ma ad usare i mezzi. La responsabilità dei media è sicuramente enorme e non certo come semplice mezzo tecnico ma, come ci ricorda Pasolini che ai suoi tempi parlava di televisione: “essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi ma è un centro elaboratore dei messaggi. E’ il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. E’ attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere e l’informazione dei nuovi mezzi di comunicazione è lacerante”. Non permettete ai vostri figli di massificarsi, di essere uguali agli altri. Dobbiamo coltivare la cultura del dissenso, dello spirito critico, dell’analisi. La felicità non è un racconto, non è un album di fotografie, non è la foto nuda della propria ragazza. Quello è il contorno di un’apparente felicità. Oggi, questa felicità, con lo sviluppo, è andata perduta, dobbiamo rincorrerla. Provate a chiedere ai vostri figli se sono felici, non mandategli un semplice messaggio: provate a modulare la voce e parlateci. Hanno assolutamente bisogno dei nostri sguardi, dei nostri rimproveri, hanno assolutamente bisogno di sentirsi dire che J-Ax è un pessimo cantante. Si sentiranno diversi da noi e potranno crescere. Poi, in silenzio sentitevi tutti i rapper del mondo ma non dategli mai ragione. La musica è un passaggio dell’anima e le anime devono rimanere inquiete per continuare a vivere. Ricordatevi: bulli e pupe è solo un bel film. Il cyberbullismo fa, davvero, molto male.
Il mio intervento all’iniziativa promossa dall’Osservatorio Cybercrime Sardegna, in occasione della Giornata Internazionale dei Diritti del Fanciullo, a Cagliari, il 20 novembre 2017.
Ringrazio Luca Pisano, grande motore della lotta al cyberbullismo e ringrazio tutti i miei preziosissimi collboratori del Centro Gisutizia Minorile per la Sardegna.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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