La macchina del tempo oggi torna indietro di oltre 500 anni, e vola radente sulle montagne e le valli che circondano Trento. È un giorno compreso tra il 21 e il 23 giugno 1475. In questi giorni 15 ebrei vengono giustiziati con l’accusa di avere seviziato e ucciso un bambino di due anni, Simone Unverdorben. L’accusa era stata formulata dalle autorità locali, religiose e civili, nella persona del Principe-Vescovo Johann Hinderbach. Simone era stato trovato dentro un serbatoio per l’acqua a casa di un prestasoldi ebreo. Il corpicino era ricoperto di tagli. Quello che convinse alcuni testimoni della colpevolezza dei padroni di casa fu il fatto che quando questi si avvicinarono al cadavere, i tagli iniziarono a sanguinare. In seguito a questo episodio e alla predicazione di alcuni eminenti uomini di chiesa, la comunità ebraica di Trento, insieme a quelle di Gubbio, Ravenna e Perugia, venne spazzata via dalla vendetta purificatrice delle folle inferocite. Il piccolo Simone dal canto suo divenne oggetto di culto e nel giro di pochi decenni fu dichiarato martire e poi beato. Solo nel XIX° secolo l’accusa nei confronti degli ebrei trentini venne smontata da un tribunale ecclesiastico. Nel 1965 il nome di Simone scomparve dal calendario di Santa Romana Chiesa.
L’accusa di omicidio rituale è stata a lungo un cavallo di battaglia per gli antisemiti. Sin dal 1144 gli ebrei europei dovettero subire bufale, diremmo oggi, che li accusavano di uccidere bambini cristiani per dileggiare la morte di Cristo, servendosi del loro sangue per i propri abominevoli riti.
Il meccanismo era fatto di molteplici ingranaggi: la predicazione di zelanti e dotti uomini di chiesa, l’intervento dell’inquisizione, la condanna a seguito di processi violenti, la confisca dei beni, l’espulsione delle comunità ebraiche sospettate di complicità con gli accusati o la loro ghettizzazione, il culto dei bambini ritenuti martiri, incoraggiato da autorità religiose e politiche e, soprattutto, un clima di psicosi collettiva alimentata da predicatori di professione, che accusavano gli ebrei di essere dediti a oscure pratiche magiche. I papi, che inizialmente avevano cavalcato il fenomeno, iniziarono presto a tentare di arginarlo, prendendo le distanze dai pogrom e sollevando gli ebrei dall’accusa di uccidere ritualmente i bambini (Innocenzo IV, Gregorio IX). Dichiara a tal proposito lo storico Nicola Cusumano, in un suo recente studio: “… gli effetti dirompenti che questa campagna di odio innesca, sfuggono presto di mano alle gerarchie romane. Che sul versante dell’omicidio rituale il ‘gregge’ cristiano stesse procedendo verso una pericolosa deriva era cosa già avvertita da pontefici nel XIII secolo, che ne vollero arginare il fanatismo”.
Ma la stessa chiesa finì per farsene una ragione, e riprese presto ad avallare il sentimento prevalente di odio verso la minoranza ebraica (Benedetto XIV, Sisto V), attraverso beatificazioni di bambini, celebrazioni di riti e documenti ufficiali di condanna verso gli ebrei. Di recente ha destato perplessità il libro di uno studioso italiano appartenente a un’antica famiglia ebraica, Ariel Toaff. Nel suo lavoro, “Pasque di sangue”, egli riabilita in parte le tesi accusatorie sulla base di alcuni documenti processuali a carico di ebrei Askhenaziti. Altri storici hanno contestato la ricerca, individuando proprio nell’interpretazione delle fonti l’errore principale dell’autore (gli ebrei processati finivano per confessare, sotto tortura, quello che gli accusatori volevano sentirsi dire, allo stesso modo delle streghe che ammettevano di volare durante i sabbah). Il libro tuttavia ha raccolto non pochi consensi, non tanto in ambito accademico quanto nel pubblico più vasto, risvegliando probabilmente un sentimento antico di diffidenza che neanche la catastrofe di metà Novecento è riuscita a cancellare del tutto. Dice a questo proposito Cusumano: “Che dire, se gli errori degli storici esistono per essere corretti da altri storici, altrettanto non può esser detto del pregiudizio antiebraico della folla, che non si accontenta di così poco, e non basterà più la rettifica dello storico per porvi riparo”.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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