E’ un po’ imprecisa la mia macchina del tempo, oggi, perché mi porta a un fine febbraio di un mucchio di anni fa in una grande pinnetta circondata da buio e improvvisi belati di bestie che fanno un brutto sogno. Il giorno e l’anno non li so. Ricordo il padrone di casa. Un vecchio cortese e forte. Parlava un logudorese così stretto che stentavo a capirlo. E allora rivolgendosi a me prese a usare un italiano che certi professori del liceo classico che mi sembra ancora frequentassi, se lo sognavano. Ci avevano detto che era il padre di un latitante. Io a quell’età neppure lo sapevo esattamente che cosa fosse un latitante. Non conoscevo l’identificazione antropologica tra l’essere latitante e l’essere bandito, cioè nascondersi perché sei fuori dalla società. Ero andato lì, amico di amici, per una mangiata di arrosto e mi ero ritrovato al centro di un topos di Sardegna. Si udirono dei fischi fuori e dopo un po’ entrarono alcune persone che si guardarono intorno. Il vecchio fece col capo un gesto di assenso e allora le seguì un uomo che gli si avvicinò, gli avvolse le spalle in un composto accenno di abbraccio e poi andò a sedersi lontano da lui, mentre il vecchio continuava educatamente a conversare con il suo vicino di sgabello. Qualcuno mi mormorò -E’ il figlio, “quel” figlio. E così, se l’informazione era vera (capirete che in quelle condizioni non era il caso di mettersi a fare verifiche), mi ritrovai, ragazzino, a cena con un bandito. Ne fui per qualche giorno un po’ orgoglioso. Poi presi e pensarci. Perché era latitante, innanzitutto? Che cosa aveva fatto? Quanto era colpa della società e quanto lui aveva colpito la società per esserne respinto? E poi, mi piaceva davvero quel vecchio? Mi piaceva l’assoluto rispetto di cui era circondato da figli e servi pastori? Mi piaceva quella figura di patriarca la cui autorità esercitata con un battito di ciglia pesava anche sul figlio presunto latitante? Era infatti capitato che il presunto a un certo punto alzasse la voce, anche un po’ scherzosamente, durante un discussione forse di calcio. Il padre lo fulminò con un’occhiata che lo lasciò annichilito e in sardo gli intimò a bassa voce -Zitto! Ci sono ospiti. Che cosa aveva fatto nella sua vita per meritarsi quell’obbedienza assoluta, timorosa, persino da un figlio che se era vero ciò che si diceva conduceva senz’altro una vita più dura della sua? E mi chiedevo se fosse più da ammirare quel patriarca dispotico o mio padre, anche lui severo, quando era il caso, ma spontaneamente disposto a spiegarmi sino al minimo particolare, con la lingua della ragione e dell’affetto, ogni singola regola che tentava di impormi. In sostanza cominciai a chiedermi se quella cultura nella quale per la prima volta mi ero imbattuto era una cultura da invidiare, imitare, abbracciare; o da studiare, capire come parte importante di una terra, la nostra terra, per fortuna multiculturale in tutti i suoi difetti e le sue fortune. Poi da adulto ho subito cominciato a fare un mestiere che quella cultura mi ha portato a frequentarla piuttosto approfonditamente. Ma la domanda su questa indeterminatezza nel giudizio sulle nostre mille anime è sempre rimasta senza risposta. E riguarda l’ammirazione smodata e qualunquista da parte di una certa corrente di pensiero verso un imprecisato mondo pastorale che non porta soltanto gli echi antichi della nostra civiltà fiera, ma anche il retaggio della violenza e dell’isolamento qualche volta scelto perché le dispotiche classi dirigenti continuassero a restare tali e non fossero costrette a confrontarsi con altre civiltà. Una cultura delle origini, inoltre, spesso inquinata dai peggiori aspetti delinquenziali importati dagli “invasori”. Ma esiste una via di mezzo fatta di studio e rispetto per il passato e le sue tradizioni e di passione per l’emancipazione, il progresso, la civiltà e il benessere per tutti? Ho il sospetto che questa indeterminatezza sia al fondo anche di molte scelte che non abbiamo saputo compiere e che ci dividono in polemiche feroci e disperatamente sterili. Pensate soltanto agli industrialisti che mitizzano smodatamente gli anni della massima occupazione ai tempi della chimica di Porto Torres e di Ottana, ai quali si contrappongono altrettanto assertivi quelli dello “sfruttamento delle risorse locali”. C’è qualcosa di vero nella nostalgia degli sviluppisti, ma dimenticano che se quella economia è crollata c’erano dei motivi: non erano soldi veri ma rimesse dello Stato e un’industria assistita non può durare a lungo; e inoltre non è mai riuscita a permeare di sé il tessuto dell’economia locale, creando altre industrie di trasformazione e facendo circolare un capitale che spingesse a investimenti diversificati in tutto il territorio. Ma d’altro canto, può esistere da solo uno “sfruttamento delle risorse locali” non organizzato in una economia industriale programmata sul piano regionale? Fino a ora i risultati non sono stati incoraggianti. E così tutto è all’insegna di una contrapposizione smodata che nasconde in realtà interessi non certo destinati a creare benessere per tutti (vedi le iniziative urbanistiche tese a cementificare le coste) e dall’altra parte la volontà di creare potentati politici basati su una generica e demagogica esaltazione delle radici. I complessi rapporti tra proficua autonomia dei territori e centralità dei poteri sono ormai nelle mani di populistici assertori di un ridicolo sovranismo che imperversa su Facebook, galleggiando sui like di ammiratori che non sanno una riga del nostro passato e che proprio per questo hanno idee molto imprecise sul nostro futuro.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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