Prendete le vostre foto degli ultimi dodici anni, disponetele davanti a voi scorrendole dalla più datata alla più recente. Ad ogni immagine farete corrispondere un momento più o meno riuscito della vostra vita, il ritornello di una canzone, frammenti di memoria, vi ritroverete accanto a persone oggi dimenticate, con le spalle al muro per scelte che oggi giudicate sbagliate e a commuovermi per momenti di felicità fuggiti nel tempo.
Avete fatto il vostro Boyhood. Boyhood è il film di Richard Linklater atteso da una grandinata di Oscar. Un caso cinematografico, aldilà del valore in sé della pellicola, per un motivo: è stato girato nell’arco di dodici anni, tra il 2001 e il 2013, ma sempre con lo stesso cast ed in soli 39 giorni complessivi di riprese: attori e staff, una volta finito un ciak, si davano appuntamento all’anno successivo, cercando di tenersi in contatto per non perdere il filo del lavoro. Perciò Mason, il protagonista interpretato da Ellar Coltrane, nelle prime sequenze del film è un bambino di sei anni, nella scena finale un diciottenne che non sorride mai abbastanza. Lorelei Liklater, figlia del regista e nella storia sorella di Mason, da bambina prodigio si ritrova giovane donna senza un orizzonte nitido di fronte a sé. Nelle dissolvenze tra una stagione e l’altra invecchiano anche Patricia Arquette e l’ex marito Ethan Hawke, madre e padre di Mason e Lorelei: la condivisione dei figli li tiene uniti nella narrazione, i fine settimana trascorsi col padre e gli effimeri momenti di ritrovata unità familiare per feste e cerimonie. Mason passa attraverso l’infanzia e le violenze domestiche del secondo marito della madre, un insegnante alcolizzato, subisce traslochi e fughe da un capo all’altro degli Stati Uniti, soffre della precarietà della condizione economica e partecipa dei dolori di una mamma volenterosa ed intelligente, ma sempre travolta dalla vita e dalle lacrime, quando Mason parte per l’università. “Sai cosa c’è dopo la tua partenza? Il mio funerale”. Mason gioca col Gameboy, poi con la Playstation e con la Wi, vaga da porta a porta per sostenere assieme al padre la candidatura di Obama e poi, col padre, di ritrova con fucile e pistola in mano per sparare ad un bersaglio in campagna, come un americano qualunque, oppure in chiesa per il battesimo del fratellastro. Ogni stagione ha la sua musica, una hit del tempo che vi prende per mano e vi accompagna nella memoria. Non c’è bisogno che io mi fermi per non svelarvi il finale: Boyhood non ha una trama, non ci sono colpi di scena, non c’è il compiersi di una vicenda nei 166 minuti del film, ammesso che film lo si possa considerare. Si può rischiare il pisolino sul divano, però per chi riesce a coglierla l’ordinarietà della vita ha una sua potente poetica. Resta, alla fine, un senso di incompiutezza, l’amaro di occasioni perdute e felicità irrealizzate. Come nella vita di chiunque, sfogliando un album di fotografie.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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