Provate a lasciarvi andare. Lasciatevi andare e “trasferitevi” in India. Pensate ai colori, agli odori, ai rumori dell’India. Anche se non ci siete mai stati. Pensateli cosi come suggerisce la vostra immaginazione. E ora pensate ad una città gioiosa e colorata nel bel mezzo dell’altopiano Malwa, nel cuore del Paese, dove lussureggianti giardini da “le mille e una notte” si protendono verso l’alto in direzione dei monti Vindhya: è la citta dei 7 laghi, Bhopal. Dal cuore della città, volgendo lo sguardo verso casa nostra, l’Occidente, i due laghi Bhoj, del bacino del fiume Yamuna, uno dei maggiori affluenti del sacro Gange, ci riportano ad una storia antica. Erano gli anni 1000 quando il re di Parmara, fondò Bhojpal, dal nome del sovrano e dalla parola indiana “pal” che significa diga. Diga, voluta dallo stesso re sbarrando con la terra il corso del fiume Kolans. Ci vollero seicento anni per far parte dell’impero Moghul, esteso in gran parte dell’India e disciplinato da una classe dirigente islamica ricordata per le sue idee moderate. Nel 1724 la città divenne il cuore di un regno musulmano creato dal generale afgano Dost Mohammed Khan, arricchendosi di bellissimi palazzi e moschee. Quando nel 1818 il regno di Bhopal diventò un principato dell’India Britannica, restò esempio di grandi tradizioni di tolleranza nella cultura musulmana. Quando nel 1947 l’India si libera del colonialismo britannico, Bhopal resta famosa per le sue istituzioni progressiste.
Ecco adesso, potete immaginare di camminare tra le strade di Bhopal, con le narici che sanno di spezie e gli occhi che si riempiono di gialli, arancio, rossi che non avevate mai visto. Fiancheggiate i due grandi minareti a cupola bianchi della moschea Taj-Ul-Masjid, una delle più grandi dell’India, un imponente edificio rosa sormontato da tre cupole. Nel cuore del bazar, lascia senza fiato la moschea Jama Masjid, con i suoi minareti rosso scuro, che svettano in guglie color dell’oro. Salite al tempio di Lakshmi Narayan, detto anche Birla Mandir e godetevi la straordinaria vista sui laghi e sulla città vecchia. Perché nel frattempo Bhopal è diventata una metropoli, la classica metropoli orientale, dove ricchezza e povertà si inseguono senza soluzione di continuità. Sentite il chiasso di un traffico fuori da qualsiasi controllo, lo smog che vuole scansare le spezie, la polvere che vi entra nei sandali e sentite il clima di Bhopal che a dicembre è mite e piacevole.
Ora immaginate d’essere li, nel giorno che le stelle hanno indicato come il più fausto per le nozze. È il 2 dicembre del 1984 e siete li per il matrimonio di Hiresh e Sarita. Sono due giovani belli e innamorati di un amore in pieno stile Bollywood. È vero, la tradizione indiana dei matrimoni combinati resiste e anche per loro hanno deciso le famiglie. Ma Hiresh e Sarita si conoscono sin da bambini e si vogliono bene. Son poveri ma il loro amore li rende ricchi. Ricchi soprattutto di speranza. Speranza che la loro vita sia migliore di quella dei loro amati genitori che tutti i giorni si spaccano la schiena lavorando in quello stabilimento, quello della Union Carbide India Limited (UCIL), della multinazionale americana Union Carbide che produce fitofarmaci.
A Bhopal il colosso mondiale della chimica produce il Sevin, un pesticida che ammazza tutti e tutto, tranne l’uomo. Per ottenerlo si usano diversi gas e tra questi il MIC, isocianato di metile. Per i genitori di Hiresh e Sarita, spaventati dai tanti bambini che vedono in mezzo alla strada, orfani, denutriti, con problemi di salute, tossicodipendenti già da piccoli e addirittura costretti alla prostituzione, lavorare a contatto con l’isocianato di metile sembra il male minore. L’unica via d’uscita alla povertà, l’unica speranza di vita per la famiglia.
Perché il MIC se inalato rende ciechi all’istante, brucia la pelle, blocca i polmoni. È micidiale! Ma loro hanno intravisto la possibilità di una vita più dignitosa in questa fabbrica. I ricchi fratelli americani son lì per aiutarli, per aiutare il terzo mondo ad emanciparsi, ad industrializzarsi. Perché avrebbero dovuto farli lavorare in condizioni di pericolo? Si fidano, son brava gente, ingenui forse.
E in qualche modo le aspettative non son state tradite. Nonostante i sacrifici, è o non è grazie alla Union Carbide se adesso i loro figli riescono a coronare il sogno d’amore?
Ora, lasciatevi trascinare dalla pura euforia dei preparativi alle nozze nei giorni precedenti, secondo le regole della tradizione. Sarita porta la sua dote, niente di eccezionale, ma ha la sua dote. Scatenatevi anche voi nelle danze, con la musica, i canti, gli auguri. Indossate il sari adatto a voi, aiutate Sarita nel rito dell’henne a mani e piedi. Non tiratevi indietro, mettete i fiori nel gazebo dove si terrà il matrimonio. E mangiate! Perché il cibo è tanto, una quantità esagerata di cibo, manco si dovesse mangiare in quei giorni per tutto l’anno a venire. Nel Mandapa (la tenda), vedete, hanno già acceso il fuoco sacro che sancirà il legame tra i due giovani innamorati.
A questo punto, quando è tutto pronto in questo tempo sospeso della felicità, lontani dagli affanni della vita per qualche giorno, ve lo dico io quello che sta per accadere, perché voi fidatevi, non avrete il tempo per capire.
Nella casa di Sarita, tutti, compreso il sacerdote brahmano aspettano il baarat, l’arrivo di Hiresh con la sua famiglia e gli amici. Tanti anche loro. Tutti lì, a due passi dall’industria della morte della Union Carbide. Sono tutti emozionati, Sarita offre a Hiresh yogurt e miele e si scambiano sguardi d’amore e passione insieme a ghirlande di fiori. Hiresh rassicura il papà della sua sposa sulla realizzazione di Dharma, Artha, Kama. Il sari di lei viene legato alla camicia di lui, si scambiano gli anelli, si prendono per mano, gettano offerte nel fuoco. Sono finalmente sposi.
È all’incirca la mezzanotte del 2 dicembre 1984 e mentre l’allegria del momento esplode e sale al cielo una nuvola rossa scende e si appoggia sul banchetto nuziale.
Sarita e Hiresh sono morti abbracciati e sorridenti, poverini. Insieme a loro i genitori, i cugini, i parenti, tutti gli amici, tutti i presenti. Chi prima, chi dopo, ma tutti lì, a terra, a mucchi. Nessuno ha avuto il tempo di comprendere che quel lavoro che offriva loro una chance nella vita, adesso gliela stava portando via, la vita.
Dallo stabilimento della Union Carbide in 2 ore sono fuoriuscite 25mila tonnellate di gas letale. Le vittime istantanee sono 3000 ma nei mesi immediatamente successivi ne sono morti altri 25.000. Oggi a trent’anni da questo criminale incidente chimico sappiamo che i circa 150.000 sopravvissuti (ma fuori dalle stime ufficiali se ne contano 600mila), pagano nel loro corpo le colpe di quella assassina nube tossica.
Il MIC va tenuto isolato a 0 gradi dentro serbatoi chiusi ermeticamente e lontani da altri ambienti perché se entra in contatto con qualsiasi tipo di impurità è un gas che non si controlla, reagisce davvero molto male. È necessario lavorarlo a ciclo continuo, senza immagazzinare l’isocianato di metile. La Union Carbide lo fa nei suoi stabilimenti negli stati Uniti, rispetta gli standard di sicurezza previsti ma a Bhopal la parte relativa alla sicurezza degli impianti era fuori budget e nessuno ha avvisato l’interlocutore indiano dei rischi che il prodotto poteva causare.
Una tragedia, un’apocalisse rimasta senza giustizia. Nessun tribunale al mondo ha condannato la Union Cardibe, tantomeno qualcuno dei suoi funzionari per l’ecocidio del 2 dicembre del 1984 che si può senza dubbio ritenere un reato ambientale contro l’umanità.
Le vittime di Bhopal meritano giustizia. E noi, tutti, dobbiamo caricarci il peso di questa umana vergogna.
Giornalista, editorialista, opinionista, turista, altrimenti non si spiega come possa collaborare da sempre con gruppi editoriali, festival letterari, teatri, istituzioni. A tempo perso ha imparato a fare l’ufficio stampa, la blogger, l’insegnante, la PR, l’organizzatrice, il mestolo di una grande pignatta in cui sobbollono tendenze di comunicazione, arte, moda, politica e antipolitica. Questa scrive, forse bene ma non di tutto, ed entra a far parte della redazione di SARDEGNAblogger perché se la sa tirare.
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