Duole, perché realmente duole, osservare come certi temi cruciali dei sardi vengano trattati nel contesto nazionale italiano rispetto a tutte le altre regioni. Lo vediamo nell’arretratezza e disparità di strutture ed opere pubbliche come nella totale disattenzione e servilismo rispetto a scelte catastrofiche, inguaribili, come l’inquinamento e l’occupazione del territorio o la quasi totale assenza di valorizzazione e sfruttamento culturale del nostro immenso patrimonio, naturale, achitettonico, artistico e storico oltre che archeologico.
Ed è un dolore forte, intimo, perché comunque le radici di un isolano sono decisamente più profonde e linfatiche di chi vive luoghi continentali, succede in tutte le isole del mondo, là dove si mantengono ancora usi, costumi e tradizioni antiche, eredità tramandate dal passato più remoto che contengono molta più importanza e sostanza di quella che solitamente si tende a dargli. Certi tipi di pane, di lavorazioni o di parlate, certi paesaggi, possono raccontare spesso meglio e più fedelmente di altri reperti, chi eravamo nel passato.
Le reazioni a questo dolore sono svariate e spesso contrastanti. Da chi grida vendetta e riscatto con evidenti limiti di isolazionismo cronico, sino all’indifferenza più totale, per finire -come egregiamente descrivono Roberto Bolognesi e Fiorenzo Caterini in molti dei loro articoli- con chi prova verso questo “amor natìo” una vera e propria avversione, che manifesta scagliandosi contro qualsiasi ricerca identitaria si voglia intrapprendere o discutere. Ce ne sono tanti, molti di loro agiscono nel più assoluto anonimato, da “trolls” o da semplici interventisti polemico-guerraioli, arrivando persino alla diffamazione e al dileggio di chi osa sentirsi “diversamente sardo” (diversamente da come ci hanno per secoli raccontato, gli altri).
Il primo rigurgito d’orgoglio, il più forte e diretto, spinge sempre verso un’idea -costantemente ed abilmente velata di utopia dai detrattori- di “Indipendenza”.
Status che adoro, ma di cui ne conosco i limiti, specie quelli del nostro variegato quanto ancora iper-personalistico indipendentismo isolano. Ma se quest’idea è, per ora, così utopistica e irrealizzabile, così poco diffusa fra i sardi, le ragioni non stanno certo tutte dentro l’evidente avversione di alcuni. Ci sono ragioni molto più profonde e radicate. Dall’abitudine a spogliarsi delle proprie responsabilità, storiche e sociali, ché tanto c’è lo Stato che pensa per tutti, sino al credere che, vivendo in un posto così poco antropizzato, ci sia la possibilità di crearsi ognuno la sua piccola indipendenza, il suo piccolo staterello o la sua zona franca personali. In tutte quelle richieste che, come l’elemosina fuori dalle parrocchie, imploriamo sudditanti a scadenza regolare e regolarmente veniamo taciuti. Nelle ultime decisioni della riuscitissima controfigura di “Coso“, l’attuale presidente non eletto Matteo Renzi, sull’inquinamento dei poligoni, la più recente, ma dalla vertenza entrate sino all’istruzione e alla propria Storia o alle ultime alluvioni, gli schiaffi presi dai sardi sono sempre una sporta oltre il dovuto. Le reazioni pari quasi a zero, ci si chiude su un’isola, su una torre o un tetto, in una miniera solo in piccoli gruppi. Mai che ci si dia appuntamento puntuale il giorno che serve, quello delle elezioni. Nella continua incapacità di cooperazione nelle produzioni e nel commercio. Lo vedi nei posti di lavoro o nei quartieri, nei paesi come in quelle che ieri erano campagne ed oggi sono solo inenarrabili ibribi con serie problematiche di vivibilità, lo vedi nel distacco fra chi amministra e i cittadini e viceversa.
Queste sono, in verità, le ragioni più pressanti che mi spingono a credere verosimilmente che, se un domani la Sardegna dovesse assumere lo status di “Nazione”, non passerebbe molto tempo che ci ritroveremmo con mille altre indipendenze, mille altri confini che ci allontanino dall’essere davvero “popolo”. I segnali sono chiari, li vediamo nelle scelte, differenti ed opposte, talune sostenibili, altre deletrerie e devastanti, che i nostri territori prendono su temi e beni di interesse comune. Lo vedi nel tipo e nella qualità dei rapporti fra sardi, nella loro atavica difficoltà ad utilizzare e valorizzare per prima la propria lingua e poi tutto il resto, dal pecorino al reperto storico/archeologico. I primi moti al sentore di indipendenza vedevano, intorno allla fine del ‘1700, un popolo capace di organizzarsi (in “Parimenti“, di tre ordini) ed avere una identità ed una dignità presentabili e spendibili anche sul piano internazionale. Oggi cosa abbiamo, le province e i comuni? Le prime hanno vita breve ed i secondi sono diventati, non tutti ma buona parte di loro, banali vagoni per comode quanto improduttive carriere a traino del sistema più oliato e retribuito, quello degli attuali partiti.
Continuo a chiedermi, in ogni caso, cos’abbiano a che fare i sardi attuali con quelli che scolpivano, fondevano e fondavano Nuraghes e complessi architettonici unici, ma anche con quelli che, volere o volare, dovettero fare –a marolla- gli eroi nella Brigata Sassari in tempi di fame e di guerra. Essere orgogliosi del proprio passato dopo esserselo lasciati calpestare per secoli è comunque un fatto positivo, ma non esageriamo con la ripresa di identità, che è ben altra cosa e va letteralmente professata e vissuta ogni istante, per ogni situazione e non solo quando fa comodo o per uno spot.
Non soltanto a parole e, per giunta, dette in lingua italiana.
A menzu’r bìdere…
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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