Il bengalese mi sorride cordiale mentre sono fermo al semaforo: compri un fiore per la tua donna? E mi sono tornati alla mente gli italiani trucidati in Bangladesh due anni fa dall’Isis. Ricordate? Sterminarono venti persone: 9 italiani, sette giapponesi, due bengalesi, una ragazza indiana e un americano. Fino ad allora pochi sapevano dove fosse situato geograficamente il Bangladesh e in tanti ignoravano la tragica povertà di quel popolo. La cronaca di quella strage di italiani venne affiancata dai dati statistici sulla miseria, il lavoro minorile, l’elevata mortalità infantile e la trasformazione della fame dei bengalesi in forza lavoro per due soldi. Notizie sparse sullo sfruttamento del lavoro in quel Paese, a meno di € 1,50 giornaliere, norme di sicurezza inesistenti e con migliaia di morti sul lavoro. Circolò, insomma, la fotografia della moderna schiavitù “grandi firme”, e di imprenditori itineranti, appaltatori delle grandi aziende, camuffati dietro la formula elegante della “delocalizzazione dell’industria manifatturiera italiana.” Una folla di sentimenti e domande contornavano il criminale assassinio di nostri connazionali ad opera di una banda di terroristi. Sentimenti di cordoglio e domande, una in particolare: cosa ci va a fare un imprenditore italiano nell’altra parte del mondo poverissimo se non fa parte di un’organizzazione umanitaria e neppure c’è traccia di sue attività filantropiche? La domanda ce la ponemmo in tanti subito dopo aver appreso che non si trovavano lì per portare aiuti umanitari, nè per turismo. Erano in Bangladesh per affari e l’unico affare, l’unica risorsa offerta da un Paese in miseria è una forza lavoro quasi gratuita, un filone aurifero di disperazione pagato con meno di 1,50 euro al giorno, meno di un chilo di pane. Esseri umani ammassati in luoghi fatiscenti, pagati solo nella forma farisaica del salario e solo quel tanto che basta per separarlo dalla schiavitù con le pastoie. In quei giorni, dei furti della vita altrui, delle morti per fame, ci si accorgeva solo andando a vedere oltre l’ipocrisia della retorica delle immagini e delle parole che la stampa ufficiale riversava sulle bare avvolte nel tricolore. Morti da rispettare, sempre, ma ciò che venne alla luce fu la qualità e finalità della vita di un intero popolo su cui, invece, si era sempre taciuto. Ce ne accorgiammo andandole a vedere quelle altre morti giornaliere nell’altra parte del mondo poverissimo che neppure riuscivamo a indicarlo sul mappamondo. Vite abusate ancora adesso, sfruttate fino alla morte senza che alcuno se ne dolga, anche adesso che abbiamo dimenticato con quale velocità ci liberammo del cordoglio, perché va bene il dolore ma gli affari sono affari, perché la produzione non conosce soste, perchè le commesse devono essere evase senza ritardi nelle consegne, altrimenti, noi che neppure sappiamo in quale angolo povero della Terra è stata confezionata, rischiamo di non trovare la t-shirt a buon prezzo sugli scaffali del centro commerciale. I tuoi occhi scuri sono ancora lì che mi sorridono bonari al di là del finestrino: compri una rosa per la tua donna? Ti ho allungato una moneta, quasi una giornata di lavoro nel tuo paese e sono scappato via con la scusa del verde e sospinto dai clacson che neppure sanno dov’è il Bangladesh.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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