Leggo soltanto ora sul “Post” l’articolo dove qualche giorno fa Enrico Deaglio spiegava i motivi per i quali ha interrotto la collaborazione con Repubblica. Sono riassumibili nel primo capoverso: “Resterà sicuramente negli annali italiani, il 23 aprile 2020. In quel giorno, all’apice dell’epidemia, si è infatti concluso un notevole riassetto dell’informazione italiana. Il gruppo finanziario Exor ha formalizzato la catena di comando che controlla il maggior gruppo giornalistico italiano (Repubblica, Espresso, Stampa, giornali locali, siti web, radio); cardine dell’operazione il licenziamento del direttore di Repubblica Carlo Verdelli”.Sappiamo tutti che Verdelli era, ed è tutt’ora, nel mirino di un neo fascismo vigliacco e violento che ha persino indotto il ministero dell’Interno a mettere il giornalista sotto scorta e ha suscitato preoccupazione in tutta Europa.Non ci sono stati grandi proteste contro questa operazione made in Fiat: la Fiat di adesso, della finanza, non più la grande Fiat dell’economia industriale, quella di un tempo, più o meno assistita ma comunque grande incubatrice di lavoro italiano.Direi anzi che la protesta più clamorosa è stata quella di Deaglio. Poi nella categoria dei giornalisti c’è stata una diffusa rassegnazione alla potenza di questo formidabile gruppo editoriale che si è sostituito all’anima del vecchio gruppo “Espresso” di Caracciolo, cioè il primo grande editore puro italiano del dopoguerra che fece a pezzi il sistema dell’editoria giornalistica italiana dove l’industria acquisiva i giornali non per fare impresa ma per utilizzarli come strumento di pressione per altri affari. Il lungo periodo Sir della Nuova Sardegna ne è un esempio, così come lo è del periodo successivo il passaggio del quotidiano nel 1981 a Caracciolo che ne fece uno dei giornali regionali più grandi e belli del Paese. Condizione che La Nuova si è sempre sforzata di conservare anche in seguito a dispetto del mutare degli assetti editoriali e delle generali difficoltà della carta stampata nel mondo.Pochi ora protestano con forza in difesa di Verdelli e di ciò che rappresenta: perché il giornalismo è debole, la stampa è in crisi, qualsiasi cosa, o quasi, è buona se garantisce mantenimento dei posti di lavoro e versamenti dei contributi previdenziali a un ente pensionistico e assistenziale che resiste ma rispecchia nelle sue condizioni il generale smarrimento della categoria. Pochi vogliono esporsi con questi nuovi padroni la cui determinazione è dimostrata dalla freddezza con la quale si sono liberati di Verdelli, quasi un avviso: badate che noi non abbiamo paura dei vostri mostri sacri.Ed è per questo che mi chiedo: anche prima che la nuova Fiat mettesse le mani sull’informazione italiana, oltre a Verdelli quanti ne restavano di questi mostri sacri? Quanto sopravviveva lo spirito di gente come Caracciolo che aveva chiuso le porte della stampa alla cultura industriale dei Rovelli e dei Cefis? Forse dovremmo riflettere su questo: quanto la Fiat della finanza abbia trovato facile presa in una situazione dove ormai la bandiera dell’informazione era agitata liberamente ma sempre più stancamente appunto da Verdelli e pochi altri.Una situazione che mi ricorda quella descritta dalla storica Giuseppina Fois in un saggio che è parte fondamentale del libro curato da Sandro Ruju “La Nuova Sardegna ai tempi di Rovelli”, pubblicato dalla Edes. La professoressa Fois fa del passaggio del giornale da Arnaldo Satta Branca a Nino Rovelli un’analisi forse unica nel suo disincanto scientifico e nella coraggiosa denuncia di una condizione che la memorialistica sarda ha spesso mitizzato. E scrive tra l’altro: “La vendita della Nuova Sardegna suscitò preoccupazione e scandalo. Da una parte si denunciò subito la fine traumatica di quella che appariva (e in parte era) una lunga esperienza di indipendenza giornalistica. Dall’altra si segnalò invece, con toni polemici, come il giornale della democrazia sassarese, essendosi inaridita da anni la sua vena originaria anticonformista e pluralista, si fosse per così dire quasi autopredisposto a subire l’aggressione esterna da parte del nuovo potere economico”. La storica cita un articolo pubblicato su un periodico degli anni Sessanta da uno dei più coerenti e acuti intellettuali sardi, Giuseppe Melis Bassu: “Che cos’è questa bandiera che sta scendendo dal pennone? Che indipendenza è mai quella di un giornale se manca una coerenza ideale, un nerbo di idee, un impegno preciso verso la realtà nuova? Diciamolo ancora una volta, anche se è amaro ripeterlo: nessuna bandiera è stata ammainata, perché nessuna bandiera – da tempo ormai – sventolava su quel pennone”.Cito Giuseppina Fois perché trovo questa considerazione fondamentale in una eventuale riscrittura della storia della mia città libera da vincoli di quieto vivere e di altri condizionamenti che ritengo abbiano sempre oscurato alcuni suoi aspetti. Quindi una suggestione che magari mi porta esageratamente a ritenere quella bandiera perduta degli anni Sessanta sardi un paradigma del giornalismo della famiglia De Benedetti poi incamerato dagli eredi Agnelli. Forse dovremmo chiederci se già da tempo anche quella bandiera fosse un po’ stanca, pur con i lodevoli sussulti che ogni tanto la facevano agitare al vento dell’informazione guardiana severa dell’operato del potere.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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