Si chiamava Benedetto ma lo chiamavano tutti Berretto, anche sua madre che lamentava l’infelice scelta del nome di battesimo. “Questo bimbo mi fa dannare -ripeteva tra sé e sé- benedetto un corno!”. E lo andava ripetendo alle amiche, ai parenti, al pediatra fin da subito, fin dal primo vagito, e poi dopo, nei primi anni di vita, quando i bimbi non sanno che di talco e di buono. Nonostante la sfiducia materna Benedetto era cresciuto. Certo, non era forte forte, aveva un corpicino esile, braccia secche e lunghe come rami e gambette ossute attorno alle quali non faceva presa neppure l’elastico dei calzini. L’amore materno ingrassa più della mollica sporca di Nutella e a Benedetto erano mancati entrambi. In compenso aveva una fantasia fervida. Nelle sue storie i bambini erano grassi di baci, avevano pance piene di carezze e dalle orecchie pendevano i ‘bravo’ e i ‘bravissimo’ di mamme attente. Delle attenzioni della sua mamma, invece, Benedetto ricordava solo la forza con la quale lei gli strofinava le guance col sapone nel tentativo vano di lavargli via le lentiggini. Benedetto aveva imparato da subito a non offendere la vista della mamma e, così, si calava sul viso quell’enorme berretto a quadri neri e rossi regalatogli dal nonno e gli sembrava che la mamma fosse un po’ meno arrabbiata con lui. Era il suo modo di fare il bravo bambino: gli altri tenevano le braccia conserte o mangiavano tutta la verdura nel piatto, lui -Berretto- mangiava gli spinaci per il ferro e nascondeva le lentiggini per la mamma. I bambini inventano storie bellissime ma quelle di Berretto lo erano di più perché prendevano corpo e sangue. La mamma giurò più volte di aver sentito la voce dell’amico immaginario di Berretto quando, distesa sul lettino, andava a scaricare l’ansia. “Questo bimbo mi ha fatto impazzire -ripeteva all’analista- benedetto un corno!”. Quel giorno che Berretto tornò sporco di sangue la mamma si fece raccontare nove volte cosa fosse accaduto. E ogni volta Berretto aggiungeva un dettaglio, vivo, vero. Quasi incredibile. Le cose erano andate più o meno così. Sulla strada che portava a scuola c’era da sempre un albero enorme. Berretto vi sostava ogni giorno, si toglieva per un po’ il cappello, scuoteva i folti capelli rossi, respirava a pieni polmoni e rispondeva col suo saluto a quello frusciante delle foglie. Talvolta abbracciava il tronco ma le sue braccia non chiudevano il cerchio. L’albero era un papà dal girovita troppo ampio, pensava Berretto. E pensava pure agli abbracci della sua mamma, neanche quelli chiudevano il cerchio nonostante lui fosse piccino. Le sue storie Berretto le inventava tutte all’ombra di quell’albero ed erano storie forti e robuste, con parole piene di chili, aggettivi paffuti e verbi ben saldi, come le radici del suo papà albero. Ad ascoltarle nessuno avrebbe detto che fossero di un bimbo secco come un fuscello e leggero come un capello. I bambini vogliono fare sempre il mestiere dei loro papà, vogliono diventare come loro. Berretto, da grande, avrebbe fatto l’albero. Sarebbe stato alto, forte, robusto, avrebbe avuto le braccia aperte ad abbracciare il cielo e le gambe lunghe lunghe fin nel cuore della terra. Il giorno che Berretto tornò sporco di sangue due uomini cattivi stavano segando papà albero. La strada andava allargata, l’aveva detto il sindaco che aveva dato l’ordine dell’abbattimento e Berretto sapeva bene che agli ordini impartiti dai grandi non si può dire di no. Capitava sempre anche a lui di non potersi rifiutare quando la mamma gli ordinava di mangiare le lenticchie. Papà albero cadde con un tonfo enorme e Berretto inghiottì le lacrime come aveva visto fare a Enrichetto, il compagno di banco a cui, a già soli dieci anni, era volato in cielo il papà. “Ti sei di nuovo sporcato mangiando a mensa!” gli urlò in testa la mamma quando ne vide la maglietta macchiata di rosso. Berretto notava quelle macchie solo ora. Era ancora sconvolto, aveva appena visto morire suo padre ma la mamma non poteva sapere e, quando anche avesse saputo, non avrebbe capito. Scambiò l’aria assente del bimbo con la paura di una punizione e, invece di rassicurarlo, incalzò con domande sull’origine di quelle macchie. Berretto balbettò prima che erano di pomodoro, poi disse che erano di fragola e che era stata tutta colpa di Marcella, l’amichetta che, nel rubargli dalla coppa un po’ di panna, ne aveva rovesciato il succo sulla maglia e sul tavolo. Infine, proruppe in un pianto inconsolabile: papà albero era stato ferito e, morendo, gli aveva sporcato la maglia di sangue. La mamma gli ordinò di chiudersi in camera, di non inventare altre storie assurde e di farsene finalmente una ragione: il padre non lo aveva neanche mai riconosciuto. “Tuo padre è sparito il giorno stesso che gli dissi di aspettarti. Maledetto avrei dovuto chiamarti, Maledetto!”. Berretto parlò tutta notte con l’amico immaginario. All’indomani la mamma trovò in camera due bicchieri sporchi di latte. Berretto era uscito prestissimo, non aveva aspettato neppure il pullmino. Dalla strada era stato rimosso il corpo di papà albero. Sull’asfalto un po’ di foglie e delle macchie come di sangue, di quelle che restano dopo un brutto incidente. Berretto lo sapeva, lui non diceva bugie né inventava storie assurde. Papà albero era morto e quelle sulla sua maglietta erano davvero macchie di sangue. Guardò al cielo ed espresse il suo desiderio, quello di sempre, quello di tutti i bambini. Diventare come papà. Le ricerche continuarono per giorni. Al settimo giorno il sindaco non credette ai suoi occhi. L’albero era stato abbattuto, com’era possibile che un altro più alto e più robusto fosse cresciuto proprio lì, lì sulla strada da allargare? La mamma, chiamata dai pompieri, corse sul posto. Riconobbe la maglia sporca di sangue ai piedi dell’albero. Cercavano tutti Berretto e lo cercavano col naso all’ingiù. Poi un bambino, che nessuno aveva mai visto prima, uscì dalla folla e sul ramo più alto e più secco indicò il berretto a quadri neri e rossi.
(racconto pubblicato in “Radici Emergenti. Storie di identità e territori”)
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