Cellule dell’Isis si erano infiltrate nelle Baleari, come metastasi nei polmoni del Vecchio Continente. Di quelle macchioline in mezzo al Mediterraneo pensavano di fare il ponte per lo sbarco in Europa: avrebbero calpestato l’Occidente frantumandolo a forza di bombe. Il grosso del movimento stazionava in Libia, attendendo il segnale dai temerari dell’avamposto delle isole spagnole: “Quando tutto sarà pronto per l’invasione, avrete il permesso di raggiungerci”. Passarono sei mesi, uno e due anni, ma dalla cellula dell’Isis a Formentera venivano spediti ai compagni in Libia solo messaggi cifrati per invitare alla calma e proibire iniziative personali a coloro che scalpitavano per distruggere il palazzo della Nazioni Unite o la Torre Eiffel: ci voleva ancora tempo prima di vedere definito in tutti i suoi dettagli il piano di attacco. La prima linea dell’Isis si componeva di trenta militanti scelti dal vertice dell’organizzazione: i selezionati erano i più abili sul piano tattico e i più efficaci per capacità militari, avevano inoltre a disposizione ingenti risorse finanziarie. Decidevano i futuri assetti dell’Europa islamizzata con questi ritmi: sveglia a mezzogiorno, poi spostamento in massa al chiringuito El Tiburon, dove la giornata sfumava e la notte cedeva all’alba tra i mojito (le bevande leggermente alcoliche vennero ammesse per facilitare il dibattito) e le interminabili discussioni sull’obiettivo della prima azione terroristica in Europa. Tra chi diceva Madrid, capitale della Cattolicissima Spagna, e chi spingeva per passare a ferro e fuoco Roma, sede del Vaticano, per due anni il dibattito si trascinò senza raggiungere una soluzione, arenando la strategia della tensione nel guado del disaccordo. Ad un certo punto, alcuni uomini della cellula inscenarono una clamorosa azione di protesta trasferendosi al Cafè del Mar di Ibiza. Per portare avanti una strategia autonoma, fecero sapere. Qualcuno sosteneva che alla base di questo dissidio ci fossero i contrasti sul nome del leader cui affidare il controllo delle operazioni, altri asserivano che il dissidio avesse un altro nome: Natalia, una mora con la quinta di petto che ammiccava a tutti i componenti del gruppo e sulla quale tutti i componenti del gruppo avanzavano diritti. I terroristi dividevano le attenzioni tra le tettone di Natalia e il suo sorriso, fresco come una fetta d’anguria a ferragosto.
Finché, un giorno, Yussuf andò in giro a vantarsi di avere posseduto Natalia nel privé del locale, in una vasca idromassaggio colma di sangria. Rachim partì con un diretto alla punta del mento che stese Yussuf, Karim corse in sua difesa e tirò una pedata nelle palle a Rachim, che si rotolò a terra contorcendosi per il dolore, in breve si sviluppò un tafferuglio che finì con un tappeto di corpi lunghi distesi sul parquet. Pesti ed ubriachi, così giacquero i combattenti dell’Isis sino al mattino del giorno dopo. Seguì la frattura irreparabile del gruppo nelle due correnti. Tra loro, tuttavia, i contendenti sostennero sempre di essersele date per insanabili divergenze sull’interpretazione del celebre versetto del Corano che vieta la costrizione nella fede. Ad ogni modo, per due anni di Isis non si parlò più e gli attentati cessarono. In Italia, intanto, questa pace improvvisa suscitava inquietudine e sospetto.
Molto preoccupato, Matteo Salvini convocò in tutta segretezza una direzione urgente della Lega. In Italia la grande paura del terrorismo sembrava dimenticata e con essa l’odio verso gli immigrati, anche perché la nazionale di calcio composta da nove neri su undici si avvicinava ai Mondiali del 2018 con i favori del pronostico. Mutamenti preoccupanti per il Carroccio che, giunto ad un passo dall’essere il primo partito, ora era costretto a fare i conti con una flessione nei consensi.
Da un paio d’anni una nuova corrente sociologica godeva di grande credito presso la stampa più influente, che ne rilanciava con crescente enfasi le conclusioni. Questo gruppo di studiosi sosteneva che il fondamentalismo islamico ma anche tutte le altre forme di violenza ideologica della storia avevano la loro origine non nel fanatismo, quanto nell’instabilità mentale di fondatori e leader. Questa interpretazione prese piede dopo il disastro aereo del marzo 2015 in Provenza, provocato da un pilota tedesco colto da depressione, ma divenne sempre più convincente per il ripetersi di tanti fatti di cronaca sino allora sottovalutati: mariti che ammazzavano mogli per la depressione, mogli che ammazzavano mariti per la depressione, figli che ammazzavano padri per la depressione e via discorrendo. Andando a ritroso nella storia, per questi pensatori fu facile dimostrare che Bin Laden era depresso per la sua salute cagionevole, Hitler per i suoi fallimenti artistici, Mussolini per i complessi di inferiorità verso Hitler, mentre Isis e Boko Haram facevano proseliti in aree sottosviluppate del mondo dove disperazione, fame e mancanza di Pay-tv attentavano alla stabilità mentale di gran parte della popolazione.
L’odio indirizzato agli immigrati veniva ora scaraventato contro i depressi, causa di assenteismo e inefficienza nelle pubbliche amministrazioni nonché nemici dell’ottimismo istituzionale. I suicidi, inoltre, lasciavano spesso debiti non onorati, trascinando nel baratro onesti creditori e inasprendo la già difficile situazione economica. Chi dava l’idea di essere giù di morale veniva guardato con sospetto, gli amministratori delle case farmaceutiche divennero ospiti fissi di Porta a Porta e proposero la somministrazione obbligatoria dello Xanax come forma di vaccinazione, il deputato sardo Mauro Pili attaccò dalle colonne de L’Unione Sarda il governatore Pigliaru, dimostrando con ampia documentazione fotografica che non lo si vedeva sorridere da almeno un paio d’anni. Venne costituita L’ADI, Associazione Depressi Italiani.
”Dobbiamo modificare la nostra ragione sociale, ormai la paura dell’immigrazione è superata e non paga in termini di consenso elettorale. Ora la gente chiede protezione dai depressi, sono il maggiore pericolo per la stabilità sociale”. Dopo un crescendo di dichiarazioni e interventi televisivi contro il pericolo della depressione, Salvini annunciò una grande manifestazione di piazza “per chiedere al governo – disse il leader della Lega – interventi ormai improcrastinabili contro un rischio così grave: a chi soffre di questo disturbo va tolto ogni incarico di responsabilità, le connivenze debbono finire”. Giorgia Meloni e Daniela Santanché assicurarono sostegno e presenza.
La manifestazione fu indetta a Roma, in Piazza del Popolo, per il primo giorno d’estate. Salvini sperava nel pienone: in caso di fallimento, la sua segreteria sarebbe stata a forte rischio e il futuro del movimento incerto. Il battage televisivo fu martellante, per l’occasione venne costituito un comitato per organizzare la trasferta dalle sezioni di tutta la Padania. Lo coordinava Furio, macellaio di Conegliano Veneto e camicia verde da sempre.
L’Associazione depressi italiani aveva organizzato una contromanifestazione, alla quale però non si presentò nessuno: molti non riuscirono ad alzarsi, altri si svegliarono, fecero per prepararsi ma poi pensarono che tanto non sarebbe cambiato nulla e si rimisero a letto.
Alle 8.30 del mattino, la fiumana leghista scendeva in via Cola di Rienzo per raggiungere la piazza. Furio faceva da battistrada, intonando slogan contro chiunque: lui ce l’aveva con il Parlamento di nullafacenti, contro la pubblica amministrazione di corrotti, contro il Fisco che bastonava i poveracci e chiudeva gli occhi davanti ai potenti, contro Equitalia, contro il Fisco, contro l’Euro, contro l’Europa, contro i comunisti, contro le scie chimiche, contro Prodi, contro Greta e Vanessa (nessuno ricordava più chi fossero, lui sì), contro l’amministratore del condominio dove viveva. Furio era incazzato e stava alla testa di un corteo di gente incazzata. Incazzata, non depressa. Naturalmente Furio e gli altri ce l’avevano anche contro i depressi.
All’incrocio tra via Cola di Rienzo e via Properzio, la macchia color carro armato in marcia verso Piazza del Popolo incontrò una macchia variopinta di giovani uomini e giovani donne, reduci da una notte di festa nei locali della Città Eterna. Si sentivano nell’aria fresca del mattino vibrare corde di chitarra e strofe di canzoni conosciute. In testa a questo corteo c’era una ragazza abbronzata, i capelli corvini lunghi sulle spalle e un vestitino a fiori dai colori vivaci. Il seno generoso della ragazza dava la certezza che il vestitino sarebbe esploso sul davanti da un momento all’altro, ma lei saltava e ballava spensierata. E le tette le ballonzolavano furiosamente, calamitando decine di occhi.
Gli occhi della ragazza incrociarono quelli iniettati di sangue di Furio, due fessure sotto le folte sopracciglia. Lei gli corse incontro, lui sospese la camminata rabbiosa, la fissò avanzare senza capire, fermo dentro i suoi pantaloni mimetici e la camicia verde, lei avanzò correndo e gli annodò le braccia al collo, lo baciò sulla bocca premendo il seno potente contro il torace dell’energumeno. Ci fu lo stesso silenzio che sospende la vita nello stadio prima di un calcio di rigore.
Tutti rimasero fermi, tranne il membro di Furio che nelle mutande s’innalzò ringalluzzito. La chitarra riprese a suonare e il musico cantò “e con le mani amore per le mani ti prenderò e senza dire parole nel mio cuore ti porterò”. Poi una biondina che sembrava Patsy Kensit degli Eight Wonder ripeté la stessa scena con un altro dei manifestanti. Tutti baciavano tutti. “Noi andiamo in giro per la città a cantare, suonare e divertirci, lui – alzò la mano un signore dalla barba bianca – ci racconterà tutte le storie dei posti dove staremo” disse ad alta voce la ragazza, con quel delizioso danzare delle parole che esce dalla bocca degli ispanici. ”Perché lo fate?” chiese Furio. “Perché uno di noi è molto malato ed era depresso, noi portandolo in giro gli abbiamo fatto tornare la vita nel petto”.
I due cortei si mescolarono unendosi. Passarono anche da piazza del Popolo, dove dal palco ebbero il tempo di fregarsi le mani solo per un momento, prima di vedere scorrere via, oltre, verso la vita, quelle fiumana di gente felice.
Salvini venne colto dallo sconforto e lasciò la politica, l’Italia vinse i mondiali, Natalia tornò a Formentera e aprì in società con Rachim e Furio un Chiringuito. Lo chiamarono “Besos”.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo e-book "Cosa conta".
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