Allora, dunque: l’agenda di oggi dovrebbe ricordare che il 3 luglio del 1886 venne presentata al pubblico la prima automobile. Quindi dovrei parlarvi di questo. Ma siccome non me ne frega niente, e penso neppure a voi, vi parlerò invece della mia prima automobile, una Fiat 124 color verde scuro del 1966, quindi credo fosse il primo modello. Cosa che senz’altro riscuoterà il vostro interesse come il mio. Io ne venni in possesso nel 1972, patentato ormai da tre anni trascorsi a fregare la Cinquecento di mia sorella e la Millecento di mio cognato. La 124 era di mio padre, che non se la lasciava fregare. E non me la lasciava neppure guidare. Questo nonostante fosse stato lui a insegnarmi a guidare sulla sua Seicento, quando ero alle scuole medie, nelle strade di campagna intorno al paesino dove lui faceva il medico condotto. E quando incrociavamo il maresciallo dei carabinieri, il militare salutava bonario -Ebbé, dottò, facendo scuola guida al bambino, ah? Però sta imparando, mi sembra. Altri tempi. Adesso mio padre l’avrebbero arrestato e io sarei finito nel carcere minorile di Quartucciu. Quindi, all’età di 18 anni, l’esame per la patente fu soltanto una formalità (a parte l’orale, un po’ in salita, perché studiavo poco anche in quel campo) e mio padre era tranquillo sulle mie capacità di guidatore, ma la sua 124, la prima auto acquistata direttamente in concessionaria Fiat, via Carlo Felice, e non di seconda mano, la prima testimonianza di una conseguita, relativa tranquillità economica, quella macchina lì non la lasciava toccare a nessuno. A me piaceva da matti ma figuriamoci se avevo simili ambizioni. Stavo già cominciando a guadagnare qualcosa scrivendo sui giornali e buttavo l’occhio tra gli sfasciacarrozze in cerca di qualche rudere alla mia portata. Del resto in terza liceo un mio compagno di scuola pluriripetente una volta ci portò in un cimitero d’auto poco fuori città, a Cappuccini (ora quell’area è in pieno centro), dove aveva notato un relitto di Renault 4 con tutte le quattro ruote. Ci eravamo portati appresso un bottiglione di “normale”, benzina che costava meno della super. A serbatoio semipieno, l’amico lavorò un po’ con i fili dell’accensione e la R4 riprese vita. La usammo allegramente per molto tempo, ci stavamo anche in dieci o dodici (era molto spaziosa, la R4) ed eravamo fieri del dispositivo di posteggio automatico. Nel senso che se il guidatore mollava il volante, l’auto sterzava bruscamente a destra abbattendosi su muri o marciapiedi. Lo usavamo, questo sistema, in via Roma per fare ridere le ragazze sperando che salissero a bordo. Dovrei aggiungere che della greffa faceva parte un vigile urbano che da anziano si era iscritto nuovamente a scuola per conseguire il diploma (poi si laureò, anche). Ma non lo aggiungo per non metterlo nei guai per avere più volte omesso di trarci in arresto. Tornando alla 124, un giorno del 1972 accadde che mio padre mi dicesse -Sai che mi cambio la macchina? Mi trattenni dal manifestargli in maniera colorita il mio sostanziale disinteresse verso questa notizia che immaginavo non avrebbe influito più di tanto sulla mia biografia. E lui continuò -Mi prendo un’altra 124, il nuovo modello. Nuova manifestazione di grande partecipazione da parte mia all’imminente evento, ma lui aggiunse. -Alla Fiat per l’usato mi danno pochissimo, quindi con mamma stavamo pensando di intestare a te la macchina vecchia. Al giorno d’oggi se un padre dice al figlio che gli vuole regalare un macchina vecchia, il figlio gli dice di attaccarsela alle balle, anche se si tratta di una famiglia non certo ricca. Ma quelli, come già detto sino alla noia, erano altri tempi e mi trattenni dall’abbracciare mio padre soltanto perché tra noi non c’era molta fisicità (salvo una volta che mi inseguì per prendermi a calci in culo tornando dai colloqui con i miei insegnanti in prima liceo, ma non riuscì a raggiungermi). Comunque mi trovai all’improvviso in possesso di una macchina bellissima e funzionante, della quale potevo disporre in qualsiasi ora del giorno e della notte (quando avevo i soldi per la benzina) e di una promessa di imminente assunzione da parte del giornale con cui collaboravo. Fu in quei giorni memorabili che conobbi una ragazza che mi convinse a interrompere altre disordinate frequentazioni e quindi sulla 124 prese a salire soltanto lei. Io non è che fossi vecchio, ma lei era proprio una ragazzina che andava ancora a scuola e rimasi stupito quando nei primi giorni del nostro rapporto a tre (lei, la 124 e io) accadde questo fatto. Percorrevamo sulla nostra 124 via De Nicola, verso San Pietro, quando poco prima dell’ospedale venni affiancato da un’auto che mi toccò sul fianco cercando di farmi finire su un muraglione alla mia sinistra. Mi voltai pronto a litigare e vidi che alla guida, con faccia sorridente di sfida, c’era un noto picchiatore fascista e che a bordo c’erano altre tre persone della stessa risma. In sostanza mi volevano pestare e la cosa mi seccava molto vista anche la presenza della mia ragazza. Allora compii una manovra della quale vado ancora fiero. Prima però devo spiegare che cos’è la “doppia debraiata”. Sulla mia 124 le marce non erano sincronizzate e per scalare velocemente bisognava fare un gioco di frizione-acceleratore- leva del cambio che si chiamava appunto “doppia debraiata”. Che andava bene sino alla seconda marcia, ma per scendere alla prima dovevi fermare la macchina, a meno che non fossi lu colciu Jim Clark. Ma io avevo bisogno della prima per levarmi da quella situazione, feci nitrire i 60 cavalli del 1200 di cilindrata e manovrai tanto bene che la prima entrò liscia facendo balzare la 124 nello spazietto lasciato libero tra l’altra auto e il muro prima di restare del tutto intrappolato. Poi cominciai a correre verso la vicina caserma dei carabinieri inseguito dall’auto carica di picchiatori. Un’altra cosa che mancava a quei tempi era il telefonino, quindi se volevi chiedere aiuto l’unica era fermarti a una cabina telefonica. Ma nel mio caso non era consigliabile. La mia idea era quella di attirare i fascisti, notoriamente categoria non intelligentissima di attivisti politici, verso i carabinieri, dove avevo già molte conoscenze a causa del mio lavoro di cronista di giudiziaria. Nel peggiore dei casi avrei potuto contare sull’assistenza di legge. Ma nel migliore, secondo chi avessi trovato di piantone all’ingresso della caserma, poteva anche finire che i quattro si trovassero tutti con il culo rotto, dato che un buon carabiniere quattro teppistelli se li sistema con una mano sola. Mentre pensavo a questo piano e badavo a non farmi raggiungere, udii all’improvviso la voce della mia ragazzina che non avevo fatto in tempo a tranquillizzare e che ritenevo terrorizzata e rattrappita sul suo sedile. -Perché fuggi? -Come perché fuggo? Perché se quelli ci prendono… -Fermati che gli rompiamo il culo. -Ma sei matta? Sono in quattro! -E noi siamo in due. Due a testa. Dai retta, non se l’aspettano e gli rompiamo il culo. Ce l’hai il cricco? Con quello gli rompiamo la testa e il culo. Chiarisco che con quella ragazzina ci sto ancora e da quel giorno, dopo circa 45 anni, continuo a usare con lei molta prudenza. Uso prudenza anche con le nostre due figlie, che lei ha educato agli stessi metodi. Comunque quella volta andò a finire che arrivai dai carabinieri e i fascisti si rivelarono meno tonti del previsto e presero il largo. Qualche settimana dopo avemmo un’altra avventura in 124. Eravamo dalle parti di Chighizzu, verso Scala di Giocca, in una zona deserta dove si godeva un panorama magnifico di tutta la vallata. Ci trattenemmo per qualche tempo sul bordo di una stretta carrareccia e al tramonto, vista l’impossibilità di fare l’inversione ed avvicinandosi l’ora in cui lei doveva trovarsi tassativamente a casa, pensai di proseguire sperando che quel sentiero finisse in una strada o che comunque si allargasse tanto da consentirci di tornare indietro. Ma la discesa divenne sempre più ripida, tanto che alla fine non riuscivo neppure a fare retromarcia perché le ruote slittavano e la pendenza era tale che bloccai l’auto perché avevo paura che si rovesciasse. In fondo alla discesa, con l’ultima luce, vidi una strada, ma avevo paura di arrivarci capitombolando. Allora dissi alla mia ragazzina -L’unica è che faccia scendere la macchina millimetro dopo millimetro, a colpi di freno, pianissimo, senza sbalzi. Ma è inutile che rischiamo in due. Tu scendi e cammina dietro alla macchina. -Io non mi muovo! -E se la macchina si rovescia? -Ci rovesciamo tutti e due. Non rompere le balle e fai attenzione. Arrivammo sani e salvi sino alla strada. La terza avventura della 124 fu qualche mese dopo e la mia ragazza quel 31 dicembre non c’era perché i genitori non le avevano permesso di uscire di notte. Con i miei amici avevamo accettato un invito in un paese. Era gente che non conoscevamo bene e ci accorgemmo con fastidio di essere ospiti di un gruppo di antipaticissimi balenteddi che volevano mostrarsi ricchi, audaci e forti con noi di città. A mezzanotte noi eravamo abbastanza sobri, mentre quelli erano cotti più di San Lazzaro e i loro genitori non stavamo meglio. Saltarono fuori alcuni fucili che vennero distribuiti per festeggiare l’anno nuovo. -Tranquilli, sono caricati a salve. Io di armi proprio non me ne intendo e accettai la vecchia doppietta con la spiegazione -Devo solo premere i due grilletti alla fine del conto alla rovescia. Così feci. Con il primo colpo abbattei una grondaia e il secondo, a causa del rinculo, andò a finire tutto intero sullo sportello del guidatore della mia 124. Quelli ridevano come ossessi, mentre i miei amici fecero cadere i fucili che non avevano ancora usato, li vedevo pallidi pallidi alla luce dei lampioni. E dovevo esserlo anche io. -Ma siete coglioni! E se avessi puntato contro qualcuno? Ma niente, i balenteddi non rispondevano neppure. Avevano di quelle sbronze che solo in certi luoghi mi è capitato di vedere, più simili a una disperata follia che a una cottura. Sta di fatto che il giorno di Capodanno tenni la macchina lontana da casa, nel caso la vedesse mio padre (meno preoccupante mia madre, che non avrebbe mai capito che si trattava di una rosa di pallini). Il 2, all’ora di apertura, andai da Renato, un carrozziere amico di famiglia. Quando vide la rosa impallidì anche lui. -Ma ti hanno sparato? Gli raccontai cosa era accaduto ma mi guardò con sospetto. Capii che ricollegava l’impallinatura al mestiere che cominciavo a fare. -Se ti hanno minacciato parla con i carabinieri e soprattutto parla con tuo padre. -Ma no, signor Renato. Nessuna minaccia. Guardi piuttosto che non ho molti soldi per questa riparazione. Fu bravissimo, stuccò i buchi lasciando i pallini dentro e diede la vernice che neanche il Tintoretto avrebbe fatto meglio. Si vedeva soltanto un alone che con il tempo si omogeneizzò scomparendo nella vecchia carrozzeria. Quando vendetti la macchina, anni dopo, i pallini erano ancora lì. Ogni tanto sogno che quella 124 ce l’ho ancora. Che la tengo in un garage e una volta all’anno, ma solo una volta all’anno, per non stancarla, è così vecchia, la metto in moto, faccio salire la mia ragazza e partiamo.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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