Io l’ho visto, ieri, ad Aru. L’ho visto che vagava dentro la mia immaginazione, tra la speranza e la realtà. Ho visto quel segnale non scritto e non codificato, quel segno tangibile che si regala agli altri, alla squadra. Quel silenzio che racconta un pezzo di vita: “Andiamo a prenderci la storia. Adesso”. L’ho visto che si guardava intorno, dentro una Spagna arroventata e solitaria, le montagne come sfide perenni, la canzone che ti accompagna “le discese ardite e le risalite”. L’ho visto quando ha capito che quello era il giorno, l’incontro con il destino, il crocevia che divide la leggenda e la realtà. L’ho visto che guardava la salita e ha contato le rampe. Non si è voltato indietro, perché indietro, molto indietro, c’era l’olandese e i sei secondi erano divenuti un’eternità. Non ci si volta mai una volta che si è deciso di ingranare la marcia delle opportunità, anche se puoi non farcela, anche se quella salita può essere l’ultima. Quando si parte c’è sempre l’incertezza dell’arrivo, c’è sempre la possibilità che ci si possa smarrire, si possa rallentare. Ma se è deciso, allora, si deve necessariamente continuare. Io l’ho visto e ho capito che aveva il passo giusto, il piede levigato a dovere, i pensieri ben raccolti verso il traguardo. E ho visto gli altri: la sua squadra. Certe cose mica riescono da soli. Chiedetelo all’olandese che da subito ha capito l’impossibilità dell’impresa. Il ciclismo non è uno sport per singoli. Comunque non basta. Oggi, soprattutto, è tecnica e tattica anche se poi se hai lo sguardo giusto non basta il tatticismo a vincere una gara. Questo l’olandese lo sapeva e giocava con i secondi. Ci vuole ben altro però per costruire il distacco nel ciclismo. Tre secondi nel motociclismo e nella formula uno sono un’eternità. Nel ciclismo sono mezza ruota, una ruota al massimo. Non puoi pensare di vincere per una ruota al massimo. Queste cose accadono solo all’ultimo secondo di una gara tirata, tra velocisti. Non tra gente che divora le salite. Quelli, gli scalatori sono un’altra cosa. Misurano tutto a rampe e ascoltano il rumore del silenzio. Io l’ho visto ad Aru masticare fatica e contare le rampe e l’ho visto deciso a ritornare a casa con qualcosa di rosso, come la passione. Questo ho visto senza mai vederlo e mai sentirlo. Perché nelle televisioni in chiaro lo spettacolo non era previsto e nella radio solo piccoli flash dentro la partita che una Juve, anch’essa in salita, stava perdendo. Io però son riuscito a vederlo quel piccolo pezzo di Sardegna, piccolo e forte camminare tra le strade di Spagna e gridare a tutti con quel grande ed immenso sorriso: questa, ragazzi è la Vuelta buona. Mi piace Commenta
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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