Io però li rimpiango Jader Jacobelli, Ugo Zatterin, Giorgio Vecchietti e tutta quella gente lì. Ma cosa stai a dire? Se avevi nove anni. E già, alle 21,10 di un giorno di aprile del 1961, quando il ministro delle Poste Spallino (Dc), spiegò in diretta agli italiani il senso del nuovo programma della Rai “Tribuna politica”, avevo proprio quell’età. E lo so che di politica e di tv non ne capivo niente (oh, non è che adesso…). Però, insomma, poi Tribuna Politica è durata sino alla fine degli anni Settanta. E in quel frattempo io sono cresciuto. E quindi qualche volta ho visto quell’anfiteatro di giornalisti in bianco e nero con al centro il tavolo del politico, del suo addetto stampa e del moderatore. Qualcosa me la ricordo. La prima è che non è vero che fosse una trasmissione pallosissima. La vulgata è quella di un giornalista conduttore grigio direttore d’orchestra che con la bacchetta indicava via via il giornalista al quale toccava la parola per la domanda (“Non un comizio, mi raccomando”), lo bloccava quando il suo tempo era scaduto e con un gesto di autorevole cortesia diceva al politico che ora toccava a lui (“Anche lei, onorevole, per favore, non un comizio: si limiti a rispondere alla domanda”). Certo, sostanzialmente andava così e per un bambino non era certo divertente. Ma era la democrazia, ragazzi. Quella vera, dove c’era spazio per tutti e lo Stato te lo garantiva, questo spazio, anche se non eri telegenico, spiritoso o cafone da audience alle stelle perché i cafoni ci piacciono, in fondo. Se non riuscivi a bucare lo schermo, erano cavoli tuoi, ma stai tranquillo che non c’erano teppisti professionisti del salotto tv che ti zittivano, ti confondevano, ti impedivano di parlare e di spiegare, all’insegna dell’io me ne fotto se non ho niente da dire o se quello che ho da dire facendo così non riuscirò a dirlo neppure io: l’importante è che non parli tu e che io faccia la figura di uno che ha la palle. Anche se sono una donna. Ora penserete che sono il solito vecchio coglione che rimpiange la televisione che metteva le mutande lunghe alle gemelle Kessler. Sulla faccenda dell’essere vecchio e magari anche su quell’altra attribuzione collegata a malincuore posso concordare. Ma sul fatto di rimpiangere acriticamente e in toto la televisione di allora che mutandava le Kessler, non scherziamo. Io dalla seconda metà degli anni Sessanta sino a tutti Settanta la televisione l’ho guardata poco: nei primi anni perché la notte uscivo, poi perché la notte lavoravo. Però ricordo abbastanza bene che la morbosa censura di carattere sessuale la coglievo e mi faceva rabbia anche da ragazzino. E in quanto a Tribuna politica non la trovavo certo la punta di diamante del progresso e dell’emancipazione delle masse. Io ho iniziato a quattordici anni a frequentare sedi politiche dove ai muri era appeso il barbone di Marx e almeno uno straccio di senso critico questi posti te lo davano. Però di Tribuna politica ho anche una visione storica, la giudico in rapporto ai suoi tempi. Non sempre bei tempi. Non mitizzatela, non sarebbe corretto, ma non demonizzatela. Certo, non era ancora i talk di adesso eredi dei salotti di Biscardi fondati sulla rissosa e basilare contrapposizione tra juventini e milanisti. Non era ancora l’infotainment , questa crasi di information ed entertainment che sospetto abbia nella sua assonanza italiana il vero recondito, implicito e lessicalmente inconscio significato: fottere il prossimo. Non era in sostanza la politica spettacolo di adesso, ma non è detto che ti annoiassi. E siccome tutti parlavano uno alla volta, senza interruzioni a gamba tesa e se si dilungavano il conduttore li metteva a tacere, tu telespettatore alla fine del programma ne sapevi un po’ più di prima. E allora bastava che mi leggessi il giornale – potreste opporre voi -, la televisione deve darmi qualcosa di più. E infatti te la dava. Primo, in termini di sintesi informativa e di chiarezza, rispetto alle articolesse della carta stampata chiamate “pastone politico”, che da successive indagini si è scoperto che lo leggevano soltanto qualche altro giornalista e neppure tutti i politici. E in quanto all’intrattenimento, i “personaggi” c’erano anche allora. A esempio un certo Mangione, giornalista incazzoso dell’organo socialdemocratico “L’Umanità”, che dava sempre addosso ai comunisti. Un giorno si presentò a Tribuna Politica dopo essersi candidato ed essere stato brutalmente bocciato alle ultime elezioni politiche. C’era Giancarlo Pajetta, al quale Mangione rivolse una delle sue domande alla dinamite. Pajetta, a sua volta noto polemista all’acido solforico, cominciò a rispondere. -Onorevole Mangione, la sua domanda… Il giornalista stizzito lo interruppe e già di per sé il fatto di interrompere era cosa più unica che rara. -Non sono onorevole. E Pajetta, diabolicamente costernato. -Ma come, mi sembra che lei fosse candidato alle recenti consultazioni… Forse non l’hanno eletta? Ah, mi dispiace, mi scusi, non lo sapevo. Ma la mettete questa finezza da kriss malese con il modo che si ha ora di polemizzare? Anche sul piano dello spettacolo, voglio dire. Ora dicono “Zitto tu, coglione, che ti hanno trombato”. E in questo modo entrambi fanno una figura pessima, entrambi diffondono violenza e maleducazione attraverso un mezzo di informazione pubblico e nessuno dei due informa o spiega. L’unica consolazione è che anche il talk show è in crisi. Ha fatto il suo tempo come lo aveva fatto Tribuna Politica alla sua ultima puntata della fine degli anni Settanta. Diciamo che forse allora fu una fine più rispettabile, una morte per onorata vecchiaia. Il talk show invece lo stanno frettolosamente impacchettando, cercano di fare sparire il cadavere o di consegnarlo alla storia minore della tv. Perché non puoi pretendere che i telespettatori vengano presi in eterno per degli imbecilli ai quali più che l’informazione e l’approfondimento interessano parolacce e urla becere, personaggi più o meno politici senza spessore, ignoranti e anche violenti, quando se lo possono permettere. C’è chi dice che la dinamica della contrapposizione bipolare sulla quale simili trasmissioni erano basate ora non esista più. Le contrapposizioni della politica si sono intrecciate, sono più complesse. Ci sono trasversalità nuove e diverse, soprattutto nell’epoca del populismo al potere sia governativo che culturale: un’era in cui i social per violenza e ignoranza fanno impallidire persino i talk tv dell’ultima generazione.
Ma secondo me il motivo principale è che i talk show, di concerto con la classe politica dei giorni nostri, hanno tenuto basso il livello del confronto politico stesso. L’alibi era quello degli indici di ascolto: invito i professionisti della gabbia a dire parolacce perché non voglio che i telespettatori si annoino e cambino canale. Balle. L’audience è la copertura di un calo generale della qualità della politica e di questo genere di informazione strettamente collegata alla politica, sino a esserne praticamente parte. La terzietà del giornalista che nella sussiegosa e noiosa severità di Jader Jacobelli era comunque rigidamente affermata, ora non esiste più. Il giornalista è una delle bestie della gabbia. Anzi, spesso la bestia più svillaneggiata nei suoi deboli e ammiccanti “Per cortesia, parlate uno alla volta”. E il risultato è che il telespettatore non si riconosce in nessuno e oltre a non guardare più certi programmi non va neppure a votare. E magari la cosa fa piacere a una politica senza più veri partiti dove i gruppi di potere gestiscono meglio la spartizione di un nucleo esiguo di votanti che quella pericolosa e terribile entità che un tempo si chiamava “popolo”. Sarò semplicistico, ma secondo me bisogna ritornare agli spazi severamente garantiti per tutti, con il direttore d’orchestra che ti indica con la bacchetta e quando tocca a te nessuno ti può interrompere. Ci stanno provando giornalisti come Mentana o la Gruber, in programmi nei quali c’è un certo ordine e una certa scala di valori fondata sull’interesse di ciò che dici, non sul volume della voce. E alle volte quindi si sopporta persino la rara coincidenza tra aggressività ed efficacia argomentativa, come nel caso del filosofo Cacciari. Ma la strada è ancora lunga.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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