Ci si sente inadeguati davanti ad una madre ed un padre che ti raccontano il calvario e la morte del loro figlio. Mi è successo alcune volte, quando lavoravo da giornalista: penna e taccuino dovrebbero essere la barriera tra chi racconta e chi ascolta, ma non finisce mai così. Qualche volta, anzi, si finisce col piangere insieme. Mi sono sentito profondamente inadeguato, di nuovo, anche alcuni mesi fa, quando un padre ed una madre – Gennaro e Liberina – mi hanno chiesto di mettere assieme i pezzi della vita di un figlio perso tre anni prima. Non dovevo scrivere sessanta righe di cronaca per l’indomani, abbiamo avuto mesi per meditare sulla biografia di Antonio Miletta. L’abbiamo intitolata “Il dono più grande” e la presenteremo domenica 20 dicembre all’Auditorium di Buddusò, paese natale del protagonista. Forse il nome di Antonio Miletta non vi è nuovo. Antonio ha trascorso venti dei ventitré anni della sua vita seduto su una sedia a rotelle. Era poco più che un neonato quando venne investito da un’auto, mentre giocava davanti a casa. Si salvò per miracolo, ma da quel momento la sua vita fu scandita da controlli, visite, terapie, sedute di riabilitazione, in cliniche spesso lontane centinaia di chilometri da casa. In quei luoghi di sofferenza e speranza, Antonio e la sua famiglia hanno stretto amicizie e relazioni che durano tuttora, trasversali per culture e ceti sociali. Perché dovreste ricordarvi di Antonio? Perché il suo nome è finito spesso sui giornali, forse lo avete anche letto e ora, riflettendoci, sì, ve lo ricordate. Antonio voleva diventare un carabiniere e per tutta la sua vita ha coltivato il sogno di entrare nell’Arma, I carabinieri, ad Olbia, finirono con l’adottarlo, cosicché lui appariva in ogni cerimonia ufficiale e, di tanto in tanto, veniva ammesso sull’elicottero del Nucleo di Venafiorita per un volo di perlustrazione sui cieli della Gallura. Soprattutto, è stata la sua feroce volontà di non rassegnarsi alla sua condizione di disabile a trasformarlo in un esempio anche per tanti conoscenti che, pur potendo camminare sulle loro gambe, non ne avevano la forza di spirito. Antonio è morto tre anni fa, ma ha lasciato una scia di ricordi troppo spessa perché la si potesse disperdere. La biografia, edita da Taphros, è la somma dei ricordi di chi lo ha conosciuto. Ognuno ha portato la sua testimonianza, parole semplici e genuine per esprimere gratitudine e ricordare quel rapporto particolare. Non un capolavoro letterario, ma il bisogno di tenere viva la memoria nel modo più spontaneo. I proventi dalla vendita del libro saranno devoluti in beneficenza.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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